5O ANNI DI STUDI SULLA LINGUA
ETRUSCA IN ITALIA
di
Massimo Pittau
1. È un fatto incontestabile che negli ultimi
cinquant'anni la etruscologia è stata dominata dalla imponente
figura di Massimo Pallottino e dalla relativa scuola che egli
ha creato a Roma e in Italia. Gli strumenti operativi di questo
studioso e dei suoi allievi sono stati in primo luogo l'"Istituto
Nazionale di Studi Etruschi ed Italici" di Firenze, in secondo
luogo l'"Istituto di Etruscologia e Antichità Italiche"
dell'Università di Roma e da ultimo l'"Istituto per
l'Archeologia Etrusco-Italica" del Consiglio Nazionale delle
Ricerche. In quest'ultimo mezzo secolo per merito di Massimo Pallottino
e della sua scuola l'etruscologia ha effettuato enormi progressi
nella conoscenza della civiltà etrusca, soprattutto nei
suoi aspetti archeologico, artistico, storiografico e storico-religioso.
E pure discreti meriti ha acquisito quella scuola in ordine
allo studio della lingua etrusca. In questo campo è doveroso
citare innanzi tutto la raccolta di iscrizioni etrusche di Massimo
Pallottino, intitolata Testimonia Linguae Etruscae, pubblicata
a Firenze nel 1954 e dopo in seconda edizione nel 1968, la quale
per alcuni decenni è stata lo strumento basilare per gli
studi sulla lingua etrusca.
In secondo luogo è da citare il fatto che il Corpus
Inscriptionum Etruscarum, iniziato da C. Pauli a Lipsia più
di un secolo fa, nel 1893, ma fermatosi alla data del 1935, è
stato acquisito dall'"Istituto di Studi Etruschi ed Italici"
di Firenze ed ha ripreso le sue pubblicazioni nel 1971, curate
da Mauro Cristofani e da Maristella Pandolfini Angeletti.
Ancora la autorevole rivista di questo Istituto, gli "Studi
Etruschi", ad iniziare dal suo volume XXX (1962), ha aperto
una sezione intitolata Rivista di Epigrafia Etrusca, con
due finalità specifiche: prima, quella di procedere alla
pubblicazione ed alla illustrazione delle iscrizioni etrusche
scoperte nuovamente a seguito di recenti scavi archeologici o
di rinvenimenti casuali; seconda, quella di procedere alla revisione
e rilettura critica di iscrizioni già conosciute e pubblicate
in precedenza.
Infine un merito notevolissimo di Massimo Pallottino e della sua
scuola è la pubblicazione nel 1978 del Thesaurus Linguae
Etruscae - I indice lessicale (Roma, 1978), Primo Supplemento
(1984), Ordinamento inverso dei lemmi (1985), Secondo
Supplemento (1991). Si tratta di un'opera fondamentale, la
quale ha in pochi anni impresso numerosi e forti scossoni di progresso
alla ermeneutica e allo studio della lingua etrusca. La immensa
utilità del Thesaurus Linguae Etruscae è
presto spiegata: esso mette a disposizione degli studiosi l'intero
patrimonio lessicale della lingua etrusca che è stato
rinvenuto fino ad ora, molto più facilmente di quanto non
facessero i grossi, ingombranti e costosi volumi del Corpus
Inscriptionum Etruscarum. I lemmi infatti sono presentati
in ordine alfabetico e spesso assieme col loro essenziale "contesto
linguistico", quasi sempre con la datazione generica, talvolta
con alcuni riferimenti bibliografici. Già lo stesso ordinamento
alfabetico del Thesaurus consente ad un qualsiasi linguista,
anche modestamente attento, di vedere con facilità le varianti
dei lessemi, le diverse usanze grafiche seguite dagli Etruschi
sia nel senso diatopico sia in quello diacronico; consente di
vedere corrispondenze e trasformazioni da un fonema all'altro.
L'Ordinamento inverso dei lemmi poi mette il linguista
nelle condizioni di riscontrare e di isolare i vari morfemi dei
vocaboli, cioè le desinenze delle declinazioni nominali,
le terminazioni delle coniugazioni dei verbi, ecc.
La validità e l'utilità, anzi la
indispensabilità del Thesaurus Linguae Etruscae
ai fini dello studio della lingua etrusca non sono state per nulla
intaccate da un'altra opera, successiva, la quale aspirava appunto
a superare e sostituire il Thesaurus, gli Etruskische
Texte (editio minor) di Helmut Rix (Tübingen, 1991).
Purtroppo quest'opera ha sino ad ora fallito in larga misura nelle
sue finalità a causa di numerosi e talvolta sostanziali
difetti di cui risulta carica. Agli studiosi non resta che attendere
la editio maior dell'opera, con la speranza che l'Autore
elimini i numerosi difetti che alcuni studiosi abbiamo trovato
e segnalato (1).
Si deve infine segnalare la bella ed importante pubblicazione
fatta in occasione del II Congresso Internazionale Etrusco
(1985), curata da Francesco Roncalli, dal titolo Scrivere etrusco
(Milano, ediz. Electa), nella quale sono riportati i più
ampi ed importanti testi della lingua etrusca, il Liber linteus
della Mummia di Zagabria, la Tegola di Capua e il Cippo
di Perugia, con la relativa bibliografia.
2. Però l'interesse e la cura che il Pallottino e la sua scuola hanno dimostrato in questi ultimi cinquant'anni anche per la lingua etrusca hanno avuto pure riflessi negativi ai fini del progresso degli studi linguistici propriamente detti. Si consideri che il Pallottino ed i suoi allievi erano e sono fondamentalmente e prevalentemente "archeologi", mentre nessuno di loro ha mai dimostrato di aver acquisito anche una analoga od almeno sufficiente preparazione propriamente linguistica. A questo proposito è appena il caso di accennare e sottolineare che la specializzazione archeologica è molto distante e differente da quella linguistica, ragion per cui un archeologo può anche essere un grande studioso nella sua disciplina, mentre, se non si è fatta anche una analoga preparazione linguistica, in quest'ultimo settore sarà niente più che un orecchiante. Ebbene, questo peccato di origine della scuola archeologica italiana si è riflesso e riflesso pesantemente su molti degli studi da essa tentati in questi ultimi decenni intorno alla ermeneutica della lingua etrusca e soprattutto intorno al suo studio propriamente linguistico.
3. Il primo grosso errore che è
derivato da quel peccato originale, consiste in un concetto o,
meglio, in un preconcetto dal quale la scuola archeologica italiana
si è mostrata affetta per parecchi decenni: preconcetto
secondo cui "la lingua etrusca non sarebbe accostabile o
comparabile con nessun'altra lingua", preconcetto che risaliva,
niente di meno, a Dionisio di Alicarnasso (I 30, 2)...! (2)
Ovviamente una affermazione di questo tenore avrebbe avuto una
sua fondatezza scientifica solamente ad una condizione: che gli
archeologi italiani avessero dimostrato di conoscere tutte
le lingue di tutti i popoli che sono vissuti nel passato nelle
terre che gravitano attorno al bacino del Mediterraneo; e conoscendole
tutte ed alla perfezione gli archeologi avrebbero potuto alla
fine anche concludere con la loro tesi che "la lingua etrusca
non è accostabile o comparabile con nessun'altra".
Senonché gli archeologi italiani non hanno mai dimostrato
di possedere quella vastissima e approfondita competenza di linguistica
storica, ragion per cui la loro tesi della "assoluta incomparabilità
della lingua etrusca con una qualsiasi altra lingua", continuamente
ripetuta sino alla noia, era del tutto destituita di fondamento
e soprattutto priva di motivazioni.
Logicamente questo preconcetto relativo alla lingua etrusca peculiare
della scuola archeologica italiana non poteva non avere i suoi
gravi riflessi negativi sull'ermeneutica e sullo studio di quella
lingua, posto che il primo e fondamentale strumento della linguistica
storica o glottologia è per l'appunto la comparazione.
Si tolga la comparazione dalle mani di un linguista storico
e con ciò stesso gli si toglie ogni possibilità
di lavoro scientifico. Si tolga - come hanno fatto a lungo gli
archeologi italiani - la comparazione nello studio della
lingua etrusca, e con ciò stesso si blocca alle radici
il progresso sia della sua ermeneutica sia del suo studio scientifico.
In questo modo si spiega un fatto che nell'apparenza
poteva finora riuscire del tutto inspiegabile: lingue antiche
scoperte in tempi recenti e documentate con scarse e poco consistenti
iscrizioni o brani di iscrizioni, nel giro di qualche decennio
sono state dai linguisti moderni decifrate, tradotte e classificate,
e ciò appunto per merito della comparazione con altre lingue
conosciute. È il caso di queste lingue: il sumerico, l'ittito,
lo hurritico, l'urartaico, l'elamitico, l'ugaritico, il licio,
il lidio, il frigio ecc.(3) Invece relativamente
alla lingua etrusca, documentata con più di 10 mila iscrizioni
ed anche con testi abbastanza consistenti come il Liber linteus
della Mummia di Zagabria, i progressi ermeneutici e di studio
sono stati in questi ultimi decenni quasi impercettibili. La spiegazione
di questa apparente incongruenza od anomalia è abbastanza
chiara: il divieto della comparazione imposto dagli archeologi
italiani col loro preconcetto secondo cui "la lingua etrusca
non è accostabile o comparabile con nessun'altra"...
Non è difficile intravedere che la prima e più forte
spinta che gli archeologi italiani hanno avuto per mettere in
circolazione la loro tesi della "incomparabilità della
lingua etrusca", veniva come reazione alla circostanza che
questa lingua in precedenza era stata accostata e comparata, spesso
anche in maniera dilettantesca, con una lunga serie di altre lingue,
con risultati quasi sempre disastrosi e spesso anche ridevoli.
Senonché una tale situazione di fatto non doveva
nelle loro mani trasformarsi in una ragione di principio:
il fatto che sino ad allora fossero più o meno falliti
i tentativi di accostare e comparare l'etrusco con una dozzina
di altre lingue, non implicava necessariamente che dovesse fallire
un nuovo tentativo di accostare e comparare l'etrusco con una
nuova tredicesima lingua... Una "soluzione mancata"
(più o meno) in linea di fatto non doveva essere trasformata
in una "soluzione impossibile" in linea di principio.
4. La totale ostilità che gli
archeologi italiani hanno da tempo dimostrato e tuttora dimostrano
a comparare l'etrusco con altre lingue è da loro
espressa anche come totale opposizione a quello che essi non esitano
a chiamare e definire il "famigerato metodo etimologico".
Senonché non si sono accorti né si accorgono che
al concetto di "etimologia" essi danno un significato
fortemente deviato e deviante. Infatti etimologia significa
ed implica "derivazione", mentre comparazione
non significa né implica necessariamente anche "derivazione".
Un linguista infatti può comparare - come alcuni
hanno già fatto - l'etrusco puia "moglie"
col greco opyîein "sposare", e gli etruschi
sem "sette" e nur "nove" coi
lat. septem e novem, senza però arrivare
ad affermare che gli uni derivano dagli altri. Dunque comparazione
non significa automaticamente derivazione etimologica.
Su questo punto è opportuno ricordare quanto ha scritto
a più riprese Vittore Pisani: propriamente parlando, quelli
indoeuropei non sono "vocabolari etimologici", mentre
sono "vocabolari comparativi" (4).
Ovviamente col ricordare e ribadire la differenza che esiste tra
la comparazione e l'etimologia, tra la comparazione
e la derivazione, noi linguisti non possiamo non difendere
la perfetta legittimità anche della etimologia.
Pertanto non possiamo non respingere con fastidio - ma anche con
senso di umorismo - la ricorrente frase degli archeologi nostrani
"il famigerato metodo etimologico". Si tolgano al linguista
sia la comparazione sia la etimologia e ci si venga
a dire che cosa resta da fare al povero glottologo o linguista
storico!
5. In maniera unanime gli archeologi
italiani sostengono che per la lingua etrusca "non esiste
alcun problema di decifrazione", in quanto essa sarebbe stata
già "decifrata del tutto" (5).
Ma anche con questa loro tesi essi non si accorgono di avere un
concetto molto improprio ed in parte errato della "decifrazione
linguistica".
In realtà per una lingua antica di cui siano state trovate
solamente documentazioni scritte, esistono due differenti "decifrazioni",
o, meglio, due differenti gradi di decifrazione. Il primo consiste
nel "decifrare i grafemi", cioè nel riuscire
a trasformarli in fonemi, ossia nel riuscire a pronunziarli; e
di certo questo primo grado di decifrazione è stato già
effettuato per la lingua etrusca, la quale, in virtù dell'uso
che gli Etruschi facevano dell'alfabeto greco, è ormai
quasi perfettamente e totalmente leggibile o pronunziabile. Ma
la vera e più importante "decifrazione" viene
dopo, quella per cui dai grafemi si passa a capire quale effettivamente
sia l'esatto significato che essi portano e nascondono, quella
decifrazione per cui dai "segni grafici" si riesce a
passare ai rispettivi "significati fattuali o concettuali".
È del tutto evidente che il vocabolo e il concetto di "decifrazione"
trae origine dalla pratica dei messaggi segreti, che vengono criptati
e trasmessi con "cifre". Ebbene, in un ufficio di decifrazione
militare, in cui mi sono trovato ad operare durante l'ultima guerra
mondiale, il nostro primo compito era di certo quello di riuscire
a "captare" esattamente le "cifre" dei messaggi
cifrati del nemico, ma la vera decifrazione di questi messaggi
veniva da noi effettuata solamente dopo, quando da quelle cifre
captate riuscivamo a passare al messaggio che esse portavano e
nascondevano, quando cioè riuscivamo a passare dai segni
cifrati ai rispettivi fatti o concetti significati. Ecco,
vera e propria decifrazione linguistica - lo ripeto e lo sottolineo
- si ha quando si riesce a passare dai segni grafici ai
significati espressi.
Ebbene, nonostante che gli archeologi italiani lo neghino decisamente,
il problema della decifrazione della lingua etrusca sussiste tuttora
ed in larghissima misura. Ad es., tra i più di 500 differenti
vocaboli che si trovano nel Liber linteus della Mummia
di Zagabria, pur essendo tutti ormai quasi perfettamente leggibili
e pronunziabili, solamente di una ventina è stato fino
ad ora decifrato in maniera certa il relativo significato, mentre
per tutti gli altri esiste ancora ed in forma grave il problema
della "decifrazione".
6. In questi ultimi decenni tra gli etruscologi italiani si è fatto un gran parlare e discutere sul problema dei metodi da adoperare per affrontare lo studio della lingua etrusca, in ragione diretta del suo carattere di "lingua non comparabile con nessun'altra". Non esito a dire che a me personalmente quelle discussioni sono sembrate in larga misura oziose e la prova migliore di questo mio convincimento viene da due circostanze: da un lato è certo che non sono derivati molti lumi e molte scoperte intorno ai testi etruschi affrontati ed analizzati da coloro che quelle discussioni avevano mandato avanti; dall'altro è pure certo che una tale discussione pertinente ai metodi di studio non si è mai verificata intorno a nessun'altra lingua antica. A mio modesto avviso l'approccio interpretativo od ermeneutico alla lingua etrusca - come del resto ad una qualsiasi altra lingua almeno relativamente sconosciuta - non implica soltanto quei metodi che sono stati teorizzati e canonizzati dagli archeologi italiani: il metodo combinatorio, quello etimologico, quello bilinguistico, quello strutturale e qualche altro, ma ne implica anche altri, senza che per nessuno valga un privilegio rispetto agli altri. Premesso e ricordato infatti che la prima idea che un interprete si fa di un certo vocabolo o di una certa frase di una iscrizione esaminata e studiata è un fatto di natura "intuitiva", c'è da osservare che questa "intuizione" o prima idea nell'interprete nasce con procedimenti concettuali ed anche per occasioni pratiche od ambientali, di cui spesso egli stesso non si rende conto e di cui spesso non riesce a ricordare l'esatta origine psicologica. La prima idea od "intuizione" del valore semantico di un certo vocabolo sconosciuto, etrusco o di un'altra qualsiasi lingua, può venire perfino da un confronto linguistico errato: ad esempio, io ritengo che la prima idea od intuizione del valore semantico del vocabolo etrusco mi "io" sia venuta agli interpreti dell'Ottocento dalla circostanza che in numerosi dialetti italiani mi significa appunto "io". Eppure è certo che il mi "io" dialettale italiano non deriva affatto dall'etrusco, bensì deriva dal lat. me, trasformatosi in mi perché nella frase risulta quasi sempre proclitico ed atono (6).
7. Nella nota e secolare diatriba relativa alla origine
degli Etruschi, autoctoni secondo Dionisio di Alicarnasso
oppure trasmigrati dalla anatolica Lidia in Italia, secondo
Erodoto, il Pallottino e la sua scuola hanno nella sostanza optato
decisamente per la prima tesi. Però in realtà questa
opzione stupisce parecchio, quando si consideri che la tesi autoctonista
di Dionisio non è stata condivisa da nessun altro autore
antico, mentre quella migrazionista di Erodoto è stata
condivisa da altri 3O autori greci e latini ed inoltre ne erano
convinti gli stessi Etruschi, come dimostrano sia un loro decreto
ricordato da Tacito (Annales, IV 55, 8) sia due
loro famosi riti: il rito della infissione dei clavi annales
nel tempio della dea Northia (Livio, VII 3, 7), per indicare il
passare degli anni, e quello della fondazione delle città
more etrusco; l'uno e l'altro erano e sono spiegabili solamente
da parte di un popolo immigrato in un dato territorio, il quale
teneva a conservare la memoria storica del suo arrivo ed inoltre
eseguiva particolari cerimonie nel fondare città ex
novo, mentre non erano né sono spiegabili da parte
di un popolo che fosse vissuto in quel territorio da tempo immemorabile
(OPSE, §§ 10, 11, 56). Inoltre anche la nota
dottrina etrusca dei saecula (Censorino, De die natali,
17, 5, 6), con la connessa credenza della fine della nazione etrusca
dopo il decorso di un certo numero di secoli, non poteva che appartenere
ad un popolo che sapeva e ricordava di essere arrivato in Italia
come immigrato.
Non depone di certo a favore di una spiccata
capacità storiografica l'aver accettato la testimonianza
di un solo autore greco (Dionisio) e l'avere invece trascurato
quella di 31 autori, greci e latini, con in testa il padre della
storiografia occidentale, Erodoto (7).
D'altronde si deve precisare che, come ha dovuto riconoscere lo
stesso Pallottino, fra gli etruscologi moderni sono molto più
numerosi quelli favorevoli alla tesi erodotea migrazionista che
non a quella dionisiana autoctonista (8). D'altronde,
a prescindere dalla ovvia e perfino commovente adesione dei suoi
allievi, egli si accorse alla fine di essere rimasto piuttosto
isolato nel sostenere la sua tesi fondamentalmente autoctonista;
e lo riconobbe malvolentieri e con forte disappunto che non evitò
neppure l'offesa, quando scrisse testualmente: "La maggior
parte degli studiosi è schierata, più o meno decisamente
(e più o meno "intelligentemente") a favore dell'origine
orientale" ed inoltre tacciò gli studiosi migrazionisti
di "distrazione, leggerezza e pigrizia mentale" (9)
Il Pallottino dunque, ad iniziare dal 1947, col suo libro L'origine
degli Etruschi (Roma 1947), non ha più voluto che si
parlasse della "origine degli Etruschi" e di fatto almeno
qui in Italia non se ne è più parlato per numerosi
decenni. Secondo lui, quello della "origine degli Etruschi"
sarebbe un problema privo di senso, come lo sarebbe quello della
"origine dei Francesi". L'ethnos etrusco - egli
ha ragionato - è nato e si è sviluppato, cioè
si è "formato" in Italia, proprio come la civiltà
francese è nata e si è sviluppata, cioè si
è "formata" in Gallia. Questo è il verbo
che ha dominato la etruscologia italiana almeno nei versanti della
archeologia, della storiografia e della storia dell'arte e della
religione, questo è il verbo che per numerosi decenni ha
escluso ogni discussione sull'argomento.
Il concetto della "formazione della nazione
etrusca" avvenuta solamente in Italia analogo a quello della
"formazione della nazione francese" avvenuta solamente
in Francia è stato come un punto assolutamente fermo e
indubitabile, il quale ha condizionato dal 1947 in poi quasi tutti
gli studi relativi alla civiltà etrusca e perfino quelli
relativi alla lingua etrusca. Eppure con un po' di attenzione
si sarebbe potuto vedere che quel concetto di "formazione"
aveva un suo punto debolissimo: era sufficiente osservare che,
pur concedendo che "la nazione francese si è formata
soltanto in Francia", niente vieta ad uno studioso di mettersi
il problema delle "origini" degli elementi che hanno
contribuito alla formazione della nazione francese, e precisamente
il problema della "origine dell'elemento latino" che
proveniva dall'Italia e quello della "origine dell'elemento
franco" che proveniva dalla Germania. Analogamente, pur concedendo
che "la nazione etrusca si è formata in Italia",
niente vieta ad uno studioso di mettersi il problema della "origine
dell'elemento orientale" che è presente in maniera
evidente e massiccia nella civiltà etrusca (è stato
giustamente chiamato "l'Orientalizzante") e che proveniva
dalla Lidia nell'Asia Minore (10).
La scuola archeologica italiana ha sempre insistito sulla perfetta
continuità che si constaterebbe tra l'antica cultura villanoviana
dell'Italia centrale e la successiva civiltà etrusca, mentre
l'illustre storico della civiltà antica Jean Bérard
ha fatto giustamente osservare che "La civiltà etrusca
dell'età storica si afferma in opposizione a quella villanoviana
nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso
e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo
villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco
vero e proprio" (11).
8. La sostanziale opzione della scuola archeologica
italiana per la tesi autoctonista relativa alla civiltà
etrusca non è stata priva di conseguenze negative circa
lo sviluppo degli studi sulla lingua etrusca: gli archeologi italiani
non hanno mai recepito l'invito che non pochi linguisti hanno
ripetutamente fatto a connettere l'etrusco con antiche lingue
dell'Asia Minore. E non potevano fare diversamente, perché
accettare quell'invito implicava per essi rinunziare alla loro
tesi autoctonista dionisiana ed abbracciare invece quella migrazionista
erodotea...
Comincio col citare il caso di un importante
studio di Marcello Durante, Considerazioni intorno al problema
della classificazione dell'etrusco - "Parte Prima"
(1968) (12), nel quale l'Autore connetteva
chiaramente la lingua etrusca con antiche lingue anatoliche e
nel quale c'era l'annunzio di una successiva "Parte Seconda".
Avendo un giorno incontrato il Durante ed avendogli chiesto quando
sarebbe comparso il secondo studio già preannunziato, egli
mi disse che aveva rinunziato del tutto a quella sua idea dopo
che aveva constatato la totale indifferenza con cui gli archeologi
italiani avevano accolto il suo primo studio... (13)
E assoluta indifferenza hanno in seguito manifestato gli archeologi
italiani anche per un altro studio di un linguista specialista
in lingue anatoliche, Onofrio Carruba, L'origine degli Etruschi:
il problema della lingua (1974) (14), il
quale, pure lui, connetteva l'etrusco anche con antiche lingue
dell'Asia Minore. Anzi, mentre mi è capitato di vedere
citato qualche volta da parte degli archeologi italiani lo studio
di Marcello Durante, su quello del Carruba è calato un
silenzio totale. E se ne capisce il motivo di fondo: il Carruba
aveva osato trattare esplicitamente il tema della origine degli
Etruschi, che era un tema proibito e scomunicato dalla scuola
archeologica italiana...
Né migliore sorte hanno avuto in epoca
immediatamente successiva altri linguisti che hanno riportato
la lingua etrusca al quadro delle antiche lingue dell'Asia Minore:
Vladimir I. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi
(1979), e Lydiaka und Lydisch-Etruskische Gleichungen
(1984) (15); chi vi parla con ben tre libri
e numerosi scritti (16). Ed infine, recentemente,
Francisco R. Adrados, Etruscan as an IE Anatolian (but not
Hittite) Language (1989) (17): totale indifferenza
da parte degli etruscologi-archeologi italiani, assoluto silenzio
da parte loro!
9. A questo punto sorgerà spontanea
e perfino doverosa la domanda su quale sia effettivamente la "cultura
linguistica" degli archeologi italiani rispetto alla lingua
etrusca. La risposta è del tutto facile: la loro cultura
linguistica è quella espressa e consolidata nel capitolo
che M. Pallottino ha dedicato all'argomento nella sua fortunata
opera Etruscologia, cultura linguistica consolidata quasi
esattamente da mezzo secolo, cioè dalla I edizione di questo
manuale che era del 1942 alla VII che è del 1984 (Milano,
Hoepli). Per il vero il Pallottino ha dedicato all'argomento della
lingua etrusca anche un lungo capitolo che è stato pubblicato
nell'opera di Autori Vari, Popoli e Civiltà dell'Italia
antica, col titolo La lingua degli Etruschi (1978)
(18), articolo che, con qualche lieve integrazione,
poco dopo è stato pubblicato in francese col titolo La
Langue Étrusque - problèmes et perspectives
(Paris 1978). Inoltre nel 1996 la rivista "Studi Etruschi"
ha pubblicato un articolo postumo di M. Pallottino, che avrebbe
dovuto far parte di un'intera opera intitolata Lingua e letteratura
degli Etruschi, ma in esso non compare alcuna novità
rispetto alle precedenti tesi dell'Autore (19).
C'è poi da ricordare che il Pallottino, all'inizio della
sua carriera accademica, aveva composto e pubblicato un libro
intitolato Elementi di lingua etrusca (Firenze 1936), ma
è molto significativa della consistenza scientifica di
questo suo lavoro giovanile la circostanza che neppure lui lo
abbia mai citato nei suoi lavori successivi (20).
Ebbene, se anche non conoscessimo il curriculum di studi
del Pallottino e precisamente la sua specializzazione archeologica,
da tutti i suoi studi ed interventi relativi alla lingua etrusca
risulterebbe chiaramente che egli non era affatto un "linguista"
e che una mentalità o almeno una metodologia "linguistica"
egli non se l'era mai fatta.
Faccio riferimento alla Parte III del manuale Etruscologia,
dedicata interamente al "Problema della lingua", comprendente
ben 112 pagine e costituente la più ampia esposizione ed
inoltre quella ultima dell'illustre archeologo. Ebbene, indubbiamente
in questa Parte III l'Autore si dimostra molto bene informato
intorno alla letteratura relativa alla lingua etrusca ed inoltre
alla sua problematica. Senonché in questo studio compaiono
numerose considerazioni come le seguenti, che mi sembra opportuno
riportare alla lettera:
"ara, aras, arasa, arce, arth, erce, ersce verbo
di significato incerto, ma forse esprimente azione di movimento
(con arse verse "allontana il fuoco"?)"
(pag. 506).
"etr-, ethri; etrse; etra-sa verbo connesso con azioni
sacre (forse da collegare con tur?); probabili derivati
eter-ti(c), etrin-thi" (pag. 508).
"hante, hate, hathe, hanthin espressioni nominali
o avverbiali probabilmente indicanti una posizione ("avanti"??);
possibile derivato hatrencu, riferito a persone" (pag.
509).
sat-, sath-, sath- (sath-e; sat-ena, -ene; sath-as) verbo
indicante azione di porre o stabilire?, forse ricollegabile con
sut-, suth (pag. 514).
"ut-, uth- uta, utus, utuse, utin-ce, uthari? verbo
probabilmente indicante l'azione di dare o porre" (pag. 516).
Orbene, personalmente escludo del tutto che un odierno linguista
di professione oserebbe inserire in un suo studio frasi come queste
trascritte, fondate come sono su leggerissime omofonie fonetiche
e su vaghissimi e per di più ipotetici riferimenti semantici;
frasi che si potevano scrivere ancora nei primi decenni dell'Ottocento
prima che nascesse la linguistica storica vera e propria.
Ma c'è dell'altro e di più significativo nel lungo
capitolo che stiamo esaminando: esso, in tutta la sua interezza
e in quasi tutte le sue pagine, è caratterizzato da un
sostanziale atteggiamento di "dubbio, incertezza e riserve"
dell'Autore.
Si presti attenzione alle seguenti affermazioni che vi si trovano:
"esistono larghe e profonde zone di perdurante incertezza
ed oscurità: realtà negativa che delimita, e
per molti aspetti condiziona, i fatti positivi" (pag. 406).
"L'isolamento dell'etrusco rispetto a qualsiasi altro sistema
o gruppo linguistico conosciuto [....] costituisce per noi una
condizione negativa reale e determinante" (pagg. 408-409).
"È chiaro che non potrebbe adattarsi all'etrusco una
pura esposizione di nozioni grammaticali e lessicali [...] senza
sottolineare la vastità del mare di incertezze dal
quale esse vengono progressivamente affiorando" (pagg. 419-420).
"Proprio la natura di quest'indagine per i suoi fondamenti
e per i suoi procedimenti non ci consente vere e proprie "traduzioni"
letterali se non per le iscrizioni più brevi e più
semplici, e non senza punti di incertezze e lacune (ogni
diversa pretesa di offrire, anche nell'evidenza tipografica, interpretazioni
estese o compiute, di tipo "manualistico", ha il difetto
di creare impressioni erronee, o alterate, di una cognizione che
per molti aspetti è ancora sfumata e possibilistica)"
(pag. 438). "Alla luce di quanto è stato finora esposto
appare evidente che è impossibile ricostruire e trattare
sistematicamente una "grammatica" della lingua etrusca
nel senso generalmente inteso in ogni comune approccio manualistico.
Esistono ancora troppe lacune e incertezze di fondo per
consentire un discorso che vada oltre i limiti di una prudente
delineazione dei dati acquisiti con maggiore evidenza e dei problemi
che restano aperti alla discussione" (pag. 451); "noi
ci troviamo a ragionare di una materia in molta parte oscura
e sfuggente" (pag. 479). "Esistono (...) larghe
zone di perdurante incertezza e oscurità nella conoscenza
delle forme, nel significato delle parole, nella interpretazione
dei testi. Questa realtà negativa condiziona e delimita
in modo essenziale, come è ovvio, i fatti positivi".
Ed infine: "Conclusioni più precise
trovano un ostacolo insuperabile nelle condizioni negative,
già ripetutamente sottolineate, della estrema povertà
e parzialità della documentazione, della malsicura
conoscenza dei significati e delle funzioni, della impossibilità
di stabilire una valida misura comparativa esterna, oltreché
dell'assenza di qualsiasi luce storica sulle vicende che precedono
e accompagnano il formarsi della lingua e della nazione etrusca"
(21) (tutte le sottolineature in corsivo sono
mie).
Inoltre si deve segnalare e sottolineare il fatto che è
rarissima la pubblicazione di altri autori relativa alla lingua
etrusca per la quale il Pallottino non dica che "è
da consultarsi con ogni riserva" (cfr. ad es. le note delle
pagg. 420 e 505).
I dubbi, le incertezze e le riserve
che il Pallottino esprime in quasi tutte le 112 pagine di quel
suo scritto da una parte ottengono l'effetto finale di sollevare
attorno alla lingua etrusca tutto un polverone di confusione e
di oscurità che spinge il comune lettore a ritenere che
di questa lingua non si sappia proprio nulla di sicuro e quindi
contribuisce a che perduri ancora perfino tra individui di elevata
cultura umanistica la ricorrente e falsa idea che la lingua etrusca
sia "tutta un mistero", sia una "sfinge indecifrabile"
(22). Dall'altra parte quel sostanziale e continuo
atteggiamento di dubbio elevato a sistema assume anche
un carattere "deprimente" e perfino "deterrente"
nei confronti di chi si appresti ad un primo approccio con la
lingua etrusca: perché egli prova la spinta a non volersi
interessare affatto della lingua etrusca, perché "non
se ne conosce nulla e non se ne conoscerà mai nulla"...
Si deve poi considerare con attenzione che questo
"dubbio sistematico" del Pallottino si ritrova solamente
nella Parte III del suo manuale, quella dedicata al "Problema
della lingua", e negli scritti linguistici su citati, mentre
non lo si ritrova per nulla in tutte le altre parti ed in tutti
gli altri suoi numerosi scritti. E la conclusione ovvia e necessaria
che dobbiamo trarne è questa: l'archeologo Pallottino non
credeva al valore dimostrativo della glottologia o della linguistica
storica. Dal che si deve ulteriormente concludere che egli
sarà pure stato un ottimo archeologo, ma non è stato
affatto un linguista; anzi, non solo non ha mai acquisito una
preparazione linguistica di valenza sufficiente perché
si prendano come buone le sue analisi linguistiche, ma addirittura
non sempre è stato in grado di afferrare l'esatto valore
delle analisi e delle proposte che gli autentici linguisti hanno
fatto intorno alla lingua etrusca. È significativa, al
contrario, la buona accoglienza che egli ha mostrato di aver fatto
a quel centone disordinato, disorganico e acritico di toponimi
cosiddetti "mediterranei" di A. Trombetti, Saggio
di antica onomastica mediterranea, pubblicato negli "Studi
Etruschi" (23).
Questi sono dunque il grado e la qualità della cultura
linguistica che da un quasi un esatto cinquantennio regna fra
gli archeologi italiani in ordine alla lingua etrusca. E verrà
spontanea questa domanda: "E gli allievi e successori del
Pallottino?". Ovviamente tutti seguono la sua scia e, se
si interessano di lingua etrusca, si limitano a tentare di fare
"interpretazioni" (non "traduzioni"!) di piccole
e semplicissime iscrizioni etrusche. Solamente alcuni hanno osato
comporre e pubblicare manualetti sulla lingua etrusca, ad uso
dei loro allievi o di carattere divulgativo; ma si tratta di lavori
che lo stesso Pallottino si è limitato a citare in due
note con evidente disagio e con numerose "riserve" (pagg.
420, 438).
Addirittura il Pallottino non ha nemmeno citato
un libro relativo alla lingua etrusca composto da un linguista
di professione, Giuliano Bonfante, assieme con la figlia Raissa,
Lingua e cultura degli Etruschi, che era comparso in lingua
inglese già un anno prima (24). Per
il vero questo lavoro del Bonfante non presentava nulla di nuovo
e soprattutto di personale sulla lingua etrusca, però aveva
il pregio di offrire una sintesi di quanto risultava ormai acquisito
sulla lingua etrusca con una prospettiva non più "archeologica",
bensì veramente "linguistica" ed anche "grammaticale";
prospettiva "grammaticale" che però il Pallottino
respingeva e condannava senza remissione...
10. Parlando in termini generali, dico che non deve
sfuggire il fatto che gli archeologi godono di un potere politico
ed anche economico che nessun altro specialista delle scienze
umanistiche possiede, tanto meno i linguisti. Si consideri che
gli archeologi sono gli scavatori, gli illustratori ed i custodi
di molti dei cosiddetti "beni archeologici ed artistici"
di quella patria di elezione dell'archeologia e dell'arte che
è l'Italia. Pertanto essi interloquiscono con i politici
e gli amministratori di tutti i livelli e di tutti i luoghi, i
quali mettono a loro disposizione grandi somme di danaro dello
Stato, delle Regioni, delle Province e perfino dei più
piccoli Comuni. In virtù di questo loro immenso potere
politico ed economico gli archeologi hanno grande facilità
di organizzare congressi o convegni di studio, allestire mostre
e metter su pubblicazioni e periodici.
Anche in virtù delle grandi disponibilità di mezzi
economici, gli archeologi hanno facilissimo accesso alle case
editrici per le loro pubblicazioni. D'altronde, se pure non ci
fossero a disposizione i mezzi economici di origine pubblica,
è cosa notissima che gli editori tanto odiano i noiosi
libri scritti dai linguisti, quanto apprezzano e richiedono i
libri composti dagli archeologi, ricchi come sono di numerose
e belle fotografie e di numerosi e bei disegni.
Con tutto questo loro immenso potere politico ed economico gli
archeologi come hanno grande facilità ad esporre e divulgare
le loro tesi personali, così hanno il potere e la possibilità
di fare la terra bruciata a chi la pensa diversamente da loro...
Proprio come hanno fatto relativamente alla lingua etrusca: conclamazione
ed enfatizzazione delle loro tesi e scomunica o silenzio totale
sulle tesi altrui...
11. Se questa è la reale situazione
degli studi relativi alla lingua etrusca dalla parte degli archeologi
italiani, è spontaneo chiedersi quale sia invece la situazione
dalla parte dei linguisti propriamente detti. È presto
detto: bisogna distinguere questi linguisti in due gruppi molto
differenti. I linguisti che si sono adattati alle direttive della
scuola archeologica italiana, mai interessandosi della "origine
degli Etruschi", mai facendo connessioni o "comparazioni"
dell'etrusco con altre lingue e mai tentando "etimologie",
sono stati sempre bene accetti, incoraggiati e valorizzati da
parte degli archeologi con l'invito ai loro congressi, con l'incarico
di effettuarvi relazioni e lezioni ed inoltre con la pubblicazione
delle loro opere. I linguisti invece che hanno continuato a ritenere
legittimo il problema della origine degli Etruschi e precisamente
della loro provenienza dall'Asia Minore, e hanno effettuato o
tentato connessioni o comparazioni dell'etrusco con altre lingue,
sono stati tenuti da parte, completamente ignorati, mai invitati
ai congressi e perfino ostacolati nelle loro pubblicazioni con
pesanti interventi presso le case editrici e perfino sugli organi
di stampa... (25) Molto significativo in proposito
è il fatto che al "II Congresso Internazionale di
Etruscologia", che si è tenuto a Firenze nel 1985
(con un sostegno finanziario enorme!), sono stati chiamati a tenervi
relazioni alcuni linguisti che si inquadrano alla perfezione nelle
tesi della scuola archeologica italiana, mentre non è stato
invitato nessuno dei linguisti che ritengono che anche la lingua
etrusca sia comparabile con altre lingue e precisamente con antiche
lingue dell'Asia Minore...
La conclusione ultima di tutto il mio dire è
questa: la scuola archeologica italiana ha indubbiamente acquisito
in quest'ultimo mezzo secolo notevoli meriti nel mandare avanti
gli studi sulla civiltà etrusca dal punto di vista archeologico,
artistico, storiografico e storico-religioso, mentre rispetto
allo studio della lingua etrusca ha acquisito pochi meriti, ma
anche e soprattutto molti e notevoli demeriti. Richiamo ancora
e sottolineo quella grossa anomalia consistente nel fatto che
intorno alla lingua etrusca, documentata da più di 10 mila
iscrizioni ed anche da testi abbastanza consistenti come il Liber
linteus della Mummia di Zagabria, i progressi ermeneutici
e di studio sono stati in questi ultimi decenni quasi impercettibili.
Che i linguisti propriamente detti prendano consapevolezza di
questo stato di cose è un loro preciso diritto ed anche
un loro impellente dovere (26).