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La Lingua Etrusca Disponibile presso: I N T R O D U Z I O N E Area ed epoca di diffusione della lingua etrusca |
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§ 1. La lingua etrusca
è quella che parlavano gli Etruschi, civilissimo popolo che
abitò l'Italia antica ad iniziare dalla metà del secolo
X avanti Cristo fino alla sua sottomissione e confederazione coi
Romani ed alla sua entrata nello stato romano. L'area di diffusione
della lingua etrusca corrisponde, almeno a grandi linee, all'area di
diffusione della «civiltà etrusca», la quale
comprendeva le seguenti zone dell'Italia: innanzi tutto
l'Etruria propriamente detta, la quale aveva come suoi confini
a sud e ad est il corso del fiume Tevere, a nord e ad est il corso
del fiume Arno. Sempre a grandi linee dunque l'antica Etruria
corrispondeva all'odierna Toscana, ma a meridione comprendeva anche
l'odierno Lazio settentrionale, quello situato a nord del Tevere.
Questo fiume infatti costituiva appunto il confine fra
l'Etruria e il cosiddetto Latium vetus, il quale risultava
solamente a sud del fiume stesso, sulla sua riva sinistra. La
città di Roma pertanto non era allora al centro del Lazio come
finì col risultare in seguito, ma era una vera e propria
città di confine. Ed infatti anche il suo nome è quasi
certamente etrusco, dato che con grande probabilità è
derivato dall'arcaico vocabolo latino, ma di origine etrusca,
ruma «mammella» (§ 11), e più
esattamente da quella grande ansa, a forma di mammella, che il Tevere
ha formato di fronte all'isola Tiberina, sulla riva destra, quella
che veniva chiamata ripa Veientana, dal nome della
città etrusca di Veio /1/.
In maniera analoga ma inversa, almeno all'inizio, a
settentrione l'Etruria non comprendeva le zone poste sulla riva
destra dell'Arno. In seguito però gli Etruschi allargarono il
loro dominio politico e culturale molto oltre l'Etruria, a meridione
conquistando ed occupando parecchie città del Lazio - fra cui
Roma - ed in Campania la città di Capua e la zona circostante,
a settentrione valicando l'Appennino tosco-emiliano e conquistando ed
occupando l'attuale Emilia-Romagna ed una parte della pianura
padana, arrivando di certo a Mantova, probabilmente a Verona ed a
Cremona. Infatti in tutte le regioni italiane citate sono state
trovate iscrizioni fatte in lingua etrusca: Toscana, Umbria,
Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia. Ma
sono state trovate iscrizioni in lingua etrusca anche in
Liguria, in Piemonte, nella Gallia Narbonese, in
Corsica, in Sardegna /2/
e perfino in Tunisia /3/;
segno evidente, questo, della grande autorità che l'etrusco
riscuoteva in tutta Italia in virtù sia della potenza
politica, civile ed economica degli Etruschi, sia della magnificenza
della loro civiltà, sia infine in virtù della
circostanza che l'etrusco fu la prima lingua che nell'Italia centrale
e settentrionale fruì della tradizione scritta. Ed infatti gli
altri popoli d'Italia impararono a scrivere le rispettive lingue per
impulso degli Etruschi e apprendendo da questi l'alfabeto. In
quest'ordine di idee sia sufficiente segnalare e sottolineare che le
più antiche iscrizioni che sono state rinvenute a Roma sono in
lingua etrusca e non in lingua latina.
In secondo luogo è da evidenziare il seguente
fatto, assai importante sul piano storico e culturale. È cosa
abbastanza nota che nella sua fondamentale e famosa opera Zur
Geschichte Lateinischer Eigennamen Wilhelm Schulze ha proceduto a
stabilire strette connessioni linguistiche fra la antroponimia
etrusca e quella latina. Senonché alcuni studiosi, storici e
linguisti, hanno ritenuto e dichiarato "eccessivo" il quadro generale
di quelle connessioni, ed in particolare troppo "filoetrusco". Il
nostro punto di vista sull'argomento sarebbe questo: è da
premettere e precisare che la grande maggioranza di quelle
connessioni è, dal punto di vista linguistico, ineccepibile, e
d'altra parte l'eccessività della loro somma globale è
pure un fatto indubitabile. Una terza posizione che potrebbe mettere
d'accordo quelle due posizioni che a prima vista sembrerebbero
inconciliabili, quella dello Schulze e l'altra dei suoi critici,
può essere la seguente: nel gran numero di iscrizioni
funerarie dalle quali lo Schulze ha tratto il suo materiale
antroponimico una certa parte, anche se scritta nell'alfabeto e nella
lingua degli Etruschi, in realtà apparteneva ad individui di
etnia latina od osca od umbra o venetica. Pertanto, se questo gruppo
di iscrizioni - che ovviamente saranno da individuare e da
riesaminare minutamente ed ex novo - risulta scritto in grafia
e in lingua etrusche, ciò dipende dal fatto che da un lato
l'opera di prima alfabetizzazione dei Romani, dei Latini, degli Osci,
dei Falisci, degli Umbri e dei Venetici è stata effettuata
appunto dagli Etruschi, dall'altro la lingua etrusca aveva
nell'Italia di quei secoli la caratteristica e la autorità di
unica lingua scritta ed inoltre di lingua di cultura /4/.
Questo fenomeno viene quasi certamente confermato sul
piano toponomastico: alcuni toponimi dell'Italia antica, pur non
ricadendo nelle aree del predominio politico degli Etruschi,
dànno l'impressione di essere la traduzione in lingua
etrusca di quelli originari; es. Aesernia, città del
Sannio, attuale Isernia, sembra doversi connettere con l'etr.
aiser «dèi» ed interpretare quindi come
«consacrata agli dèi» /5/.
Altro esempio: Bergomum, Bergamum, Pergamum, odierna
città di Bergamo in Lombardia, costruita sulla cima di
una ripida collina, è da confrontare col lat. pergamum
«altura, edificio elevato, roccaforte, cittadella», a sua
volta col greco pûrgamon «raccoforte, cittadella»
(toponimo a Troia, Creta, Macedonia, Misia e Lidia). Ebbene, questo
vocabolo molto probabilmente è stato importato dall'Asia
Minore in Italia per l'appunto dagli Etruschi, come lascia intendere
l'antroponimo etr. Percumsna, Pergomsna, che si può
tranquillamente interpretare come «nativo di Bergamo,
Bergamasco» /6/.
§ 2. Evidentemente la
lingua etrusca cominciò a parlarsi in Italia fin dal primo
arrivo degli Etruschi nell'Italia centrale prospiciente sul Mar
Tirreno, provenienti dalla Lidia nell'Asia Minore, secondo il famoso
racconto del padre della storiografia occidentale, Erodoto. Questo
racconto è stato contraddetto dal solo Dionisio di
Alicarnasso, mentre è stato confermato da altri 30 autori
antichi, greci e latini /7/,
e nel presente è condiviso dalla massima parte degli studiosi
moderni (archeologi, storici, storici dell'arte e delle religioni,
linguisti) /8/.
D'altronde gli stessi Etruschi conservavano la memoria storica della
loro migrazione in Italia - probabilmente nell'anno 949 a.C. - come
dimostrano sia un loro decreto ricordato da Tacito sia due loro riti
famosi: il rito della infissione dei clavi annales nel tempio
della dea Northia per indicare il passare degli anni e quello della
fondazione delle città more etrusco /9/:
l'uno e l'altro erano e sono spiegabili solamente da parte di un
popolo immigrato in un dato territorio, il quale teneva a conservare
la memoria storica del suo arrivo ed inoltre eseguiva particolari
cerimonie nel fondare città ex novo, mentre non erano
né sono spiegabili da parte di un popolo che vivesse in quel
territorio da tempo immemorabile.
Le più antiche iscrizioni etrusche però risalgono
appena alla fine dell'VIII secolo a.C., perché solamente in
quel periodo gli Etruschi conobbero e adottarono l'alfabeto greco,
che i Greci avevano importato in Italia, e in particolare nell'isola
di Pithecusa (Ischia) ed a Cuma in Campania. Dopo il
detto periodo le iscrizioni etrusche proseguono di secolo in secolo
fino all'età dell'imperatore Augusto, con una documentazione
pertanto che ha raggiunto quasi gli otto secoli di durata.
D'altra parte, nonostante che le iscrizioni etrusche terminino
appunto in questo periodo, si intravede che l'uso della lingua
etrusca, almeno nella Etruria propriamente detta, proseguì
ugualmente per qualche altro secolo dell'Impero romano, in cui
però andò a mano a mano estinguendosi, sostituita dal
latino, con una scomparsa definitiva di cui gli studiosi moderni non
sono riusciti in alcun modo a seguire od a ricostruire le fasi.
In tutto questo è implicito il concetto che la lingua etrusca
è una "lingua morta", della quale noi attualmente abbiamo
soltanto testimonianze scritte, sotto forma di iscrizioni religiose,
funerarie, dedicatorie, civili, di possesso, ecc. D'altra parte, se
si considera che la lingua etrusca si era diffusa, come abbiamo
già visto, in quasi tutta l'Italia, almeno sul piano lessicale
è logico e verosimile ritenere che relitti della lingua
etrusca si conservino tuttora, sia come appellativi sia come
toponimi, in primo luogo nell'odierna Toscana, in secondo luogo in
quelle regioni italiane dove si era affermata la dominazione e la
cultura degli Etruschi. Per vocaboli toscani ed anche italiani
dialettali delle citate regioni che siano fino al presente privi di
una sicura etimologia latina, esiste pertanto una forte ipoteca o
presunzione che siano per l'appunto «relitti lessicali e
toponimici della lingua etrusca».
Oltre a ciò è certo che un discreto numero di vocaboli
etruschi erano entrati nel lessico della lingua latina, di cui alcuni
destinati ad un illustre e fortunato avvenire come atrium,
favissa, fullo, histrio, lanista, mantissa, miles, mundus, persona,
populus, radius, satelles, subulo, ecc. Ebbene, è evidente
e logico che per noi moderni è possibile approfondire in una
qualche misura la nostra conoscenza della lingua etrusca anche
facendo riferimento ai relitti lessicali e toponimici e perfino
fonetici che ci sono stati conservati dai dialetti toscani, da alcuni
dialetti italiani e soprattutto dalla lingua latina.
Anzi, se facciamo precipuo riferimento ad alcuni dei citati
appellativi etruschi, che risultavano gravidi di notevoli valenze
culturali, quali miles, mundus, persona, populus, radius,
satelles e che sono entrati prima nella lingua latina e dopo
nelle lingue neolatine e perfino in alcune importanti lingue
germaniche, come l'inglese ed il tedesco, se ne può trarre la
legittima conclusione che, sia pure in una misura assai modesta, la
lingua etrusca non è scomparsa del tutto, bensì risulta
ancora operante nell'odierno quadro della cultura mondiale. Alcuni di
quei vocaboli "circolano" ancora in tutto il pianeta terrestre ed in
particolare il vocabolo satellite gli "gira" attorno anche in
senso concreto, cioè fisico-astrale.
§ 3. Per quanto riguarda
la Toscana poi è quasi certo che la cosiddetta "gorgia
toscana" - consistente nella aspirazione o spirantizzazione, in
posizione intervocalica, delle consonanti occlusive tenui c - p -
t rispettivamente in kh - ph - th - sia un relitto
fonetico della lingua etrusca.
A questa tesi - sostenuta dai linguisti G. Bertoni, C. Merlo, C.
Battisti e C. A. Mastrelli - sono state fatte da G. Rohlfs due
obiezioni fondamentali: 1ª) Mentre la spirantizzazione delle
occlusive tenui toscane sottostà alla regola della posizione
intervocalica, nelle iscrizioni etrusche mostra di non sottostare ad
alcuna regola; 2ª) «Sicuri esempi che possano testimoniare
per l'esistenza della 'gorgia' in Toscana non vanno oltre il 1525
(nel "Polito" di B. Tolomei)» /10/.
A queste obiezioni noi rispondiamo nel seguente modo:
1) L'etrusco mostra all'evidenza di essere stato una lingua
notevolmente discontinua e frazionata nello spazio e nel tempo
(§ 4), la quale inoltre non ha mai conosciuto regole unitarie e
rigorose di scrittura. In conseguenza di ciò un lapicida od
uno scrivano etrusco poteva confondere facilmente nella
scrittura le occlusive tenui con quelle aspirate e viceversa
/11/.
Però la differenza grafica delle rispettive lettere mostra
chiaramente che nella pronunzia gli Etruschi sentivano
effettivamente la differenza fonetica tra le une e le altre. 2) La
mancata registrazione della spirantizzazione nei più antichi
documenti toscani - che ovviamente risalgono appena al Medioevo - in
primo luogo sarà dipesa dalla mancata "coscienza linguistica"
di questo fenomeno da parte dei Toscani, i quali rispetto ad esso
saranno stati del tutto disattenti o insensibili, come in effetti lo
sono tuttora. Anche attualmente, esclusi quelli che abbiano fatto
studi superiori, i Toscani sono del tutto convinti di pronunziare nel
medesimo modo casa e la casa, panna e la panna,
tana e la tana e non invece casa, panna, tana, ma
la khasa, la phanna, la thana, ecc. 3) Si deve considerare che
per un qualsiasi scrivano o scrittore medioevale la grafia o
scrittura della lingua latina costituiva l'unica norma ortografica
che conosceva ed applicava e che si guardava bene dal contraddire per
l'eventuale ghiribizzo di indicare fenomeni fonetici dei parlari
neolatini, che egli riteneva non solo irrilevanti, ma addirittura
devianti rispetto alla norma della ortografia latina /12/.
§ 4. È un luogo
comune, frequente e radicato perfino tra persone fornite di cultura
superiore, quello per cui della lingua etrusca non si saprebbe nulla,
assolutamente nulla, tanto che in proposito si parla comunemente del
"mistero della lingua etrusca" oppure della "Sfinge Etrusca". E
questa sarebbe l'ovvia conseguenza del fatto che l'etrusco sarebbe
"una lingua del tutto isolata e differente dalle altre, una lingua
non confrontabile né collegabile con nessun'altra".
Senonché si deve affermare con tutta sicurezza che si tratta
solamente di un "luogo comune", anzi di due "luoghi comuni", tanto
diffusi fra la gente, quanto del tutto infondati.
Della lingua etrusca noi ormai abbiamo numerose notizie e conoscenze
assolutamente sicure, sicure quanto lo sono, ad esempio, numerose
notizie e conoscenze relative ad altre lingue antiche, come la latina
e la greca. Più di preciso si deve affermare con tutta
tranquillità che della lingua etrusca attualmente noi abbiamo
quattro tipi di conoscenze: 1) conoscenze certe; 2)
conoscenze probabili (più o meno); 3) conoscenze
incerte; 4) conoscenze ipotetiche. Ed è, questa,
una situazione del tutto analoga o simile a quella che si constata
anche rispetto alle citate lingue antiche, la latina e la greca,
soprattutto in riferimento alle loro documentazioni più
antiche. L'unica differenza che si stabilisce fra queste tre lingue
antiche è che relativamente alla lingua etrusca la percentuale
delle conoscenze certe è enormemente inferiore a quella
relativa alla lingua latina ed a quella greca.
D'altra parte si deve anche chiarire e precisare che il molto
differente grado di conoscenza che noi abbiamo dell'etrusco da una
parte e del latino e del greco dall'altra è conseguente a
motivi ed a fattori sia di natura quantitativa sia di natura
qualitativa. Il latino ed il greco sono due lingue
immensamente meglio conosciute dell'etrusco per la semplice ma
sostanziale ragione che di esse noi possediamo un materiale
documentario enorme, mentre dell'etrusco possediamo un materiale
documentario che da una parte è estremamente ridotto e molto
frammentario dall'altra e soprattutto è poco significativo.
Ecco, è proprio questo il problema di fondo: le
difficoltà nello studio dell'etrusco sono dipendenti sia dalla
relativa scarsezza del materiale documentario che noi adesso
possediamo, sia dalla sua - diciamo così - pessima
qualità.
Dell'etrusco noi attualmente possediamo circa 8 mila testi, la quale
è una quantità perfino relativamente alta,
soprattutto in rapporto ad altre lingue antiche, differenti da quelle
classiche, come ad esempio l'egizio od il fenicio-punico;
senonché la qualità di quei testi etruschi
lascia moltissimo a desiderare. Infatti nella loro maggioranza essi
sono costituiti da un solo vocabolo o addirittura dallo spezzone di
un vocabolo, oppure sono costituiti da "iscrizioni funerarie" o da
"iscrizioni dedicatorie" od infine da "iscrizioni di possesso".
Queste iscrizioni poi in generale sono brevissime ed inoltre sono
ripetitive, per il fatto che in larghissima misura esse sono
semplici «formule», le quali sono costituite soltanto da
antroponimi (prenomi, gentilizi e soprannomi) e da qualche
appellativo; ragion per cui, anche quando esse siano state
interpretate e tradotte in maniera esatta, la loro interpretazione e
traduzione offre scarso o addirittura nessun aiuto per la
interpretazione e la traduzione di altre iscrizioni più lunghe
e più complesse e soprattutto per quelle di contenuto
differente.
In secondo luogo costituisce un notevole fatto negativo la
circostanza che le iscrizioni etrusche risultino diluite in uno
spazio di tempo di quasi otto secoli, periodo in cui è ovvio
ritenere, anzi è dimostrato che pure l'etrusco si è
trasformato anche notevolmente, con la conseguenza che la traduzione
effettuata di una iscrizione del I secolo d.C. non sempre offre aiuti
sufficienti per poter tradurre una iscrizione di cinque secoli prima,
e viceversa.
Questa differenza di carattere diacronico o cronologico
risulta ormai sicuramente acquisita dagli studiosi della lingua
etrusca, i quali infatti hanno proceduto ad effettuare una certa
distinzione nella storia dell'etrusco, distinzione fra l'etrusco
arcaico, del periodo che va dal secolo VII al V a.C., e
l'etrusco recente o neo-etrusco, del periodo che va dal
secolo IV a.C. al I d.C.
È del tutto certo che questa distinzione diacronica fra
l'«etrusco arcaico» e l'«etrusco recente» risulta
ormai acquisita da tutti gli studiosi della lingua etrusca ed
è da loro tenuta nella dovuta considerazione, mentre non
altrettanto si può dire - a nostro avviso - di un'altra
distinzione, la distinzione diatopica o geografica che pure si
deve effettuare relativamente alla lingua etrusca. È cosa a
tutti nota che gli Etruschi non hanno mai conosciuto né
attuato una stretta unità statuale, con un governo centrale ed
una capitale politica ed amministrativa. Essi invece sono sempre
vissuti nella stessa identica condizione degli antichi Greci, ossia
secondo le modalità delle poleis, cioè delle
"città-stato", del tutto indipendenti l'una dall'altra,
formante ciascuna un autentico staterello, spesso in lotta fratricida
con gli altri. Ciò che legava gli Etruschi fra loro, proprio
come i Greci, era la medesima lingua, la medesima religione e la
comune coscienza di un'unica etnia o nazionalità ed anche
origine. Comune nazionalità e comune origine che trovavano la
loro affermazione solamente in occasione della festa religiosa che si
celebrava ogni anno nel santuario della dea Northia (forse presso
Orvieto). Non esistendo dunque in Etruria una capitale politica ed
amministrativa e neppure una capitale di carattere culturale oppure
di valenza economica, è evidente e logico che la lingua
etrusca dovesse essere notevolmente frazionata in varietà
dialettali, relative appunto a ciascuna delle città etrusche.
E ciò sarà stato anche una necessaria conseguenza del
fatto che l'arrivo degli Etruschi dalla Lidia in Italia è
quasi sicuramente avvenuto ad ondate successive, distanziate anche
vari decenni l'una dall'altra; in conseguenza di cui ciascuna ondata
di nuovi arrivati si sarà portata dietro un differente stadio
della madrelingua originaria, quella lidia.
Tutto ciò è confermato anche dal fatto che perfino
l'alfabeto etrusco - che non era altro che quello greco adottato
dagli Etruschi - era adoperato secondo modalità alquanto
differenti da città a città. Ed a questo proposito
intendiamo anche segnalare e sottolineare che gli studiosi hanno fino
al presente studiato a dovere le differenze diatopiche, ossia
"locali", dell'uso dell'alfabeto, mentre - a nostro avviso - hanno
trascurato quasi completamente lo studio delle differenze
fonetiche e fonologiche "locali", le quali spesso saranno
state alla base anche di quelle differenze ortografiche.
La conseguenza del mancato studio e della mancata attenzione alle
differenze diatopiche o "locali" della lingua etrusca è che la
interpretazione e la traduzione di una iscrizione rinvenuta, ad
esempio, a Cerveteri, non sempre è di aiuto per interpretare e
tradurre una iscrizione, anche coeva, rinvenuta a Volterra, e
viceversa; ciò appunto in conseguenza delle differenze
dialettali che intravediamo esistessero fra quelle due città
etrusche.
Inoltre è da supporre che nella lingua etrusca esistessero
anche differenze diastratiche, ossia differenze dipendenti dal
diverso strato sociale ed anche culturale dei parlanti delle varie
città; differenze socio-culturali che contribuivano anch'esse
ad impedire una stretta unità della lingua etrusca e che, non
conosciute da noi moderni, rendono ancora più difficile il
nostro approccio ai vari testi etruschi.
A tutto ciò si deve infine aggiungere il fatto che, mancando
di certo fra gli Etruschi una qualsiasi forma o modalità di
"politica linguistica", quella di cui invece godono tutte le moderne
lingue nazionali da parte dei rispettivi governi, poteva accadere che
nella medesima città e nel medesimo periodo due differenti
scrivani scrivessero i loro messaggi nella medesima varietà
cittadina dell'etrusco, ma secondo modalità ortografiche
almeno parzialmente differenti l'una dall'altra. In generale si
intravede che altrettanti centri di diffusione della scrittura
etrusca erano i santuari delle più importanti divinità
etrusche. In quei templi, infatti, la scrittura serviva al ceto
sacerdotale per scrivere testi sacri e formule religiose ed inoltre
per incidere formule dedicatorie su doni offerti dai fedeli alle
divinità. Però si intravede che due differenti
santuari, anche vicini nello spazio, potessero adottare e divulgare
modalità grafiche alquanto differenti nell'uso del medesimo
alfabeto etrusco.
Tutto ciò premesso, diciamo che in questo modo e per questi
motivi si comprende come l'approccio iniziale od il primo impatto con
la lingua etrusca dia la impressione di trovarsi di fronte ad una
lingua molto difficile e molto differente dalle altre conosciute, a
causa appunto delle numerose varianti secondo cui un medesimo
vocabolo risulta talvolta adoperato e scritto. E capita non di rado
che molte di queste varianti grafiche e fonetiche vengano
erroneamente interpretate come altrettante differenti forme lessicali
e grammaticali, mentre in realtà non sono altro che varianti
diatopiche oppure diacroniche, cioè tipiche dei diversi centri
abitati, dei diversi scrivani e dei differenti periodi storici in cui
esse risultano documentate.
Chiudiamo questo capitolo relativo alle "difficoltà nello
studio dell'etrusco" ricordando che in quest'ultimi decenni si
è fatto un gran parlare e discutere sul problema dei
metodi da adoperare per affrontare lo studio di questa lingua
che si presenta così "misteriosa" o almeno così
"difficile". A noi personalmente quelle discussioni sono sembrate in
larga misura oziose e la prova migliore di questa nostra convinzione
ci è venuta dalla circostanza che da esse non sono derivati
molti lumi e molte scoperte intorno ai testi etruschi affrontati ed
analizzati da coloro che quelle discussioni avevano iniziato e
mandato avanti. A nostro giudizio l'approccio interpretativo od
ermeneutico alla lingua etrusca - come del resto ad una qualsiasi
altra lingua almeno relativamente sconosciuta - non implica soltanto
quei metodi che sono stati teorizzati e canonizzati: il metodo
extralinguistico, quello combinatorio, quello comparativo, quello
etimologico, quello bilinguistico, quello tipologico, quello
strutturale e qualche altro, ma ne implica numerosi altri, spesso
completamente trascurati dalla analisi che ne hanno fatto i teorici.
Premesso e ricordato infatti che la prima idea che un interprete si
fa di un certo vocabolo o di una certa frase di una iscrizione
esaminata e studiata è un fatto di natura "intuitiva",
c'è da osservare che questa "intuizione" o prima idea
nell'interprete nasce con procedimenti concettuali ed anche per
occasioni pratiche od ambientali, di cui spesso egli stesso non si
rende conto e di cui spesso non riesce a ricordare l'esatta origine
psicologica. La prima idea od "intuizione" del valore semantico di un
certo vocabolo sconosciuto, etrusco o di un'altra lingua, può
venire perfino da un confronto linguistico errato: ad esempio,
noi riteniamo che la prima idea od intuizione del valore semantico
del vocabolo etrusco mi «io» sia venuta agli
interpreti dell'Ottocento dalla circostanza che in numerosi dialetti
italiani mi significa appunto «io». Eppure è
certo che il mi «io» dialettale italiano non deriva
affatto dall'etrusco, bensì deriva dal lat. me,
trasformatosi in mi perché nella frase risulta quasi
sempre proclitico ed atono.
§ 5. L'altro "luogo
comune" secondo cui l'etrusco sarebbe "una lingua del tutto isolata e
differente dalle altre, una lingua non confrontabile né
collegabile con nessun'altra" è alimentata da una fin troppo
famosa osservazione di Dionisio di Alicarnasso (I,30,2), che ha
parlato degli Etruschi come costituenti una «nazione a
nessun'altra simile per lingua». Il quale però è
un giudizio da una parte del tutto superficiale, dato che a livello
empirico e soprattutto non specialistico nessuno è in grado di
affermare o negare la affinità di due o più lingue se
non sia linguista di professione, dall'altra parte è
totalmente contraddetto dal silenzio che sull'argomento si constata
da parte di tutti gli autori latini. Si deve infatti considerare che,
se i Romani, che sono vissuti per numerosi secoli a stretto contatto
con gli Etruschi, non hanno mai affermato nulla di simile al citato
giudizio di Dionisio, è evidente e logico che essi non
sentivano affatto una diversità totale dell'etrusco rispetto
alla loro lingua latina.
È da notare che purtroppo questo "luogo
comune" dell'etrusco come lingua non confrontabile né
collegabile con nessun'altra è frequente non solamente fra il
grosso pubblico, ma si riscontra non di rado anche fra studiosi della
lingua etrusca, soprattutto fra quelli di estrazione archeologica.
Senonché, siccome la specializzazione archeologica non implica
affatto una corrispondente specializzazione glottologica o
linguistica, anzi è indubitabile che fra l'una e l'altra
esistono innumerevoli e profonde differenze di studio e di metodo,
è per lo meno strano che insistano sul tema della "non
confrontabilità o non collegabilità dell'etrusco con
alcun'altra lingua" studiosi che, magari ottimi specialisti in
archeologia, per definizione non sono in grado di effettuare
raffronti o connessioni fra le lingue, quella etrusca compresa
/13/.
Questo sia detto in linea di principio, mentre in linea di fatto a
codesti archeologi si deve ricordare che connessioni dell'etrusco con
altre lingue sono state già indicate, sostenute e delucidate
da numerosi linguisti, connessioni con una lingua parlata nel secolo
VI a. C. nell'isola di Lemno, nel Mar Egeo, con lingue anatoliche, il
lidio in testa /14/,
col paleosardo - cioè con la lingua parlata dagli antichi
Sardi prima della loro latinizzazione linguistica /15/
- e, più in generale, con le lingue della famiglia
indoeuropea. Sì, proprio con la grande famiglia delle lingue
indoeuropee od indogermaniche l'etrusco è stato connesso ed
inserito, sia pure con differenti prospettive, da numerosi linguisti,
come W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti,
E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F.
Schachermayr, A. Carnoy, V.I. Georgiev, W.M. Austin, R.W. Wescott, A.
Morandi, F.C. Woodhuizen, F. Bader, F.R. Adrados, ecc. ed a questa
schiera si unisce anche l'autore del presente libro.
È cosa abbastanza nota che ciò che soprattutto ha
spinto numerosi studiosi nel passato a dichiarare che l'etrusco non
era una lingua indoeuropea, era la constatazione - che si riteneva di
aver fatto - del mancato inquadramento dei numerali etruschi della
prima decina nella serie dei corrispondenti numerali indoeuropei. In
quel periodo infatti si era a conoscenza del fatto che lo stesso
primo impianto della linguistica indoeuropea e precisamente la prima
formulazione della famiglia delle lingue indoeuropee aveva preso il
suo spunto iniziale proprio dalla circostanza che già alcuni
uomini di cultura, ad iniziare dal fiorentino Filippo Sassetti
(1540-1588), avevano visto e segnalato alcune chiare corrispondenze
fra i numerali latini e greci da una parte e quelli dell'antica
lingua letteraria dell'India, il sanscrito, dall'altra. Ed allora si
era ragionato nel seguente modo: «Siccome i numerali etruschi
non si inquadrano nella serie di quelli indoeuropei, si deve
concludere che l'etrusco non è una lingua
indoeuropea».
Senonché in uno studio del 1994 noi riteniamo
di avere dimostrato e nel capitolo della presente opera relativo ai
Numerali (§ 69) noi riteniamo di dimostrare che ormai si deve
considerare come acquisito dalla scienza linguistica il fatto che
tutti i numerali etruschi nella prima decina trovano un congruente
riscontro fonetico in altrettanti numerali indoeuropei. Ragion per
cui d'ora in avanti si dovrà sostenere la seguente tesi del
tutto opposta a quella su riferita: «Siccome anche i numerali
etruschi della prima decina si inquadrano nella serie di quelli
indoeuropei, si deve concludere che anche l'etrusco è una
lingua indoeuropea» /16/.
Abbiamo detto che «anche i numerali etruschi della prima
decina si inquadrano nella serie di quelli indoeuropei»,
perché in effetti siamo convinti che molti altri fatti
linguistici dell'etrusco, lessicali ma soprattutto grammaticali,
mostrano di appartenere all'originario fondo linguistico indoeuropeo.
Ed a questo proposito anticipiamo che nella presente opera noi
segnalaremo di volta in volta, anche se spesso in maniera sfuggevole
e col solo uso, fra parentesi, della sigla ieur. (=
indoeuropeo), i fatti grammaticali e quelli lessicali della lingua
etrusca che corrispondono ad altrettanti fatti grammaticali e
lessicali delle lingue indoeuropee ed in particolare di quelle meglio
documentate e conosciute fra tutte, la lingua greca e la lingua
latina.
In linea generale ci sembra di poter interpretare che, se fino al
presente la inclusione dell'etrusco nella famiglia delle lingue
indoeuropee non è stata una cosa né facile né
pacifica, ciò è dipeso soprattutto dalla circostanza
che si è proceduto a comparare l'etrusco in misura prevalente
col latino, cioè una lingua indoeuropea fortemente evoluta con
un'altra fortemente conservativa. Ed in proposito si è
proceduto come se, nell'ambito della famiglia delle lingue neolatine,
si fosse fatta la comparazione tra quella lingua fortemente evoluta
che è il francese con quella fortemente conservativa che
è il sardo...
Inoltre nel dichiarare, con troppa sicurezza e troppa precipitazione,
che l'etrusco non era una lingua indoeuropea, si è commesso un
notevole errore di metodologia linguistica, nel senso che si è
trascurato di considerare che esistono argomenti validi per
dimostrare che due o più lingue sono imparentate fra loro,
mentre non esistono argomenti validi per dimostrare il contrario,
cioè che esse non sono affatto imparentate. In altre
parole vogliamo dire che sono argomenti validi per dimostrare la
parentela genetica fra due o più lingue solamente quelli
positivi, mentre non sono affatto argomenti validi quelli
negativi. Ad es. si potrebbero presentare innumerevoli
esempi della diversità del francese rispetto al latino, ma
tutti questi, in ragione del loro carattere negativo, non
costituirebbero affatto altrettante prove valide, cioè non
sarebbero affatto sufficienti per distruggere le numerose prove
positive che invece dimostrano la effettiva derivazione del
francese dal latino.
D'altra parte è opportuno precisare e sottolineare che la tesi
della matrice indoeuropea, ad esempio, della lingua lidia è
stata comunemente e facilmente accettata dai linguisti in base ad un
numero di concordanze linguistiche di molto inferiore a quello
per il quale pure noi sosteniamo la tesi della matrice indoeuropea
anche della lingua etrusca. E c'è da concludere logicamente
che, se il lidio era una lingua indoeuropea, anche l'etrusco che ne
è derivato, lo era.
Infine riteniamo molto importante premettere e
precisare bene che, ai fini dell'analisi e della interpretazione dei
fatti e fenomeni della lingua etrusca che facciamo nella presente
opera, noi ricorriamo quasi sempre e quasi esclusivamente al metodo
della «comparazione interna», quella che mira ad operare
soltanto nel chiuso di un determinato sistema linguistico preso in
esame e studiato - in questo caso la sola lingua etrusca - e facciamo
ciò con le due operazioni che essa prevede ed implica: la
«verifica combinatoria» e lo «sviluppo della
corradicalità» /17/.
Pertanto il ricorso non frequente che noi facciamo alla
«comparazione esterna» dell'etrusco con altre lingue
indoeuropee, è volto soprattutto a trovare e mostrare una
conferma per una interpretazione, nostra od altrui, di un
certo fatto o fenomeno linguistico etrusco. Da questa
«comparazione esterna» dell'etrusco con altre lingue
indoeuropee, però, noi non deduciamo mai prove sostanziali ai
fini della nostra interpretazione. Conferma di fatti e fenomeni
sì, dunque, deduzione di prove no! Ciò
è anche l'ovvia conseguenza del fatto che la finalità
prima e principale del presente libro non è affatto quella di
dimostrare la matrice indoeuropea dell'etrusco, ma è quella di
effettuare la analisi e la descrizione della lingua etrusca, sia
della sua grammatica sia del suo lessico, almeno nella misura in cui
ciò è possibile con quanto la scienza linguistica ha
fino al presente acquisito su di essa.
D'altra parte, anche per provare che non è affatto vero che
l'etrusco sia "una lingua del tutto isolata e differente dalle altre,
una lingua non confrontabile né collegabile con nessun'altra",
che non sia insomma una "lingua da Marziani", anticipiamo che, tutte
le volte che sarà possibile, noi faremo non soltanto
comparazioni di carattere genetico fra l'etrusco e le altre
antiche lingue indoeuropee, ma anche raffronti di carattere
tipologico fra l'etrusco e varie lingue moderne. Con l'intento
e col risultato di dimostrare che probabilmente non esiste alcun
fenomeno grammaticale o di formazione lessicale della lingua etrusca
che non trovi un suo corrispettivo in altre lingue, antiche o
moderne.
§ 6. Il materiale
lessicale e grammaticale relativo alla lingua etrusca di cui abbiamo
la documentazione ci viene da due differenti fonti: le fonti della
documentazione diretta e quelle della documentazione
indiretta.
Sono fonti della documentazione diretta le circa 8 mila iscrizioni
che risultano scritte su pareti o frontoni di tombe, su sarcofagi od
ossuari, su lapidi, su cippi, su ex-voto, su statue e statuine, su
vasi, su specchi e finalmente sui resti del famoso Liber
linteus della Mummia di Zagabria. È cosa abbastanza nota
che nel secolo scorso un viaggiatore croato acquistò in Egitto
e dopo portò in Europa una mummia egiziana, la quale in
seguito fu donata al Museo di Zagabria, dove si trova tuttora. Quando
si decise di svolgere le bende di lino che avvolgevano la mummia, ci
si accorse che esse contenevano i frammenti di un lungo testo
etrusco, il quale in seguito risultò essere un calendario
rituale o cerimoniale di carattere religioso. Probabilmente esso
costituisce la trascrizione, effettuata nel I secolo a.C., di un
testo originario del V secolo. Sulle circa 200 righe conservate
risultano quasi 1200 vocaboli, i quali però, tolte le numerose
ripetizioni, si riducono ad essere poco più di 500. È
questo il testo etrusco di gran lunga più lungo degli altri;
la sua interpretazione però fino al presente si è
presentata come molto difficoltosa soprattutto perché è
scritto in una lingua tecnica, quella dei riti religiosi appunto.
Il testo etrusco, secondo in fatto di lunghezza, è quello che
risulta inciso, prima della cottura, su una lastra di terracotta, a
forma di tegola, rinvenuta a Capua ed attualmente in possesso del
Museo di Berlino. Anch'esso è costituito da un calendario
rituale, con un prevalente carattere funerario, forse uguale ai
cosiddetti "libri Acherontici" di tradizione romana. Contiene, su 62
righe superstiti, circa 300 vocaboli leggibili.
Di recente è stata rinvenuta a Santa Marinella (Roma) una
lunga lamina di piombo, che riporta, incisa sulle due facce, una
iscrizione di almeno 80 vocaboli, di cui però soltanto la
metà risultano veramente leggibili.
Una lamina di piombo, a forma di disco irregolare, rinvenuta a
Magliano (Grosseto) (antica Hepa/Heba) e conservata nel Museo
di Firenze, presenta una iscrizione incisa sui due lati, con un
andamento a forma di spirale e con le tracce di circa 70 vocaboli.
Contiene anch'essa prescrizioni rituali.
Il modellino in bronzo del fegato di un ovino, rinvenuto presso
Piacenza e per questo chiamato appunto «Fegato di
Piacenza», porta incisi i nomi di parecchie divinità,
quasi sempre in forma abbreviata. Di certo era un modellino che aveva
finalità didattiche, per l'insegnamento dell'arte della
aruspicina o della divinazione fatta con l'osservazione del fegato
degli animali sacrificati.
Molto importanti sono due lamine d'oro, ritrovate nel 1964 nei resti
del santuario di Pirgi, dedicato a Giunone, presso Cerveteri, la
maggiore della quali trova il suo riscontro - sia pure non esatto -
in un terza lamina scritta in fenicio-punico. Noi presentiamo la
nostra traduzione delle due lamine etrusche nella 1ª
Appendice della presente opera.
Importante è anche il testo che è scolpito nel famoso
Cippo di Perugia, il quale contiene un accordo intervenuto fra due
famiglie per la divisione di terreni e per il possesso di una tomba
ivi costruita. Il testo si presenta particolarmente difficile sia
perché fa uso di un linguaggio tecnico-giuridico, sia
perché noi moderni non conosciamo per nulla le cose ed i fatti
concreti su cui era intervenuto l'accordo.
Pure importante è l'iscrizione scolpita su un volume tenuto
aperto da un defunto, che è effigiato disteso sul coperchio di
un sarcofago del 200 circa a.C., rinvenuto a Tarquinia ed attualmente
conservato nel suo Museo. Si tratta certamente di un individuo che
aveva ricoperto alte cariche sacerdotali. Anche di questa iscrizione
noi presentiamo la nostra traduzione nella 1ª
Appendice.
Abbiamo tre differenti fonti della documentazione indiretta
sulla lingua etrusca. Innanzi tutto possediamo le cosiddette
glosse, in numero di circa 80. Esse sono costituite da
vocaboli che autori antichi, latini o greci, hanno presentato come
"etruschi". Per queste glosse ovviamente non esiste il problema della
interpretazione del loro valore semantico, dato che il loro
significato è da noi conosciuto, segnalato appunto dagli
autori antichi. Tutte queste glosse hanno subìto un processo
di adattamento fonetico al latino od al greco; per alcune di esse
è stato ritrovato il corrispettivo fra i vocaboli etruschi a
noi giunti attraverso la documentazione diretta.
Appartengono alla "documentazione indiretta"
dell'etrusco quei vocaboli che sono entrati nel lessico della lingua
latina sia in virtù della lunga vicinanza geografica degli
Etruschi coi Latini e coi Romani, sia in virtù dell'ampio e
profondo influsso culturale che i primi hanno esercitato sui secondi
fin dal tempo del dominio - durato oltre un secolo - della dinastia
etrusca dei Tarquini sulla Roma primitiva. Questi vocaboli latini ma
di origine etrusca sono molto più numerosi di quanto finora si
era pensato; l'autore del presente libro lo ha dimostrato con due sue
opere precedenti /18/
ed intende dimostrarlo meglio con un intero vocabolario di prossima
pubblicazione, il quale porterà il titolo Dizionario
Comparativo Latino-Etrusco. È stato anche in virtù
del significato di non pochi di questi vocaboli latini di origine
etrusca che l'autore è riuscito ad intuire e a dedurre il
significato dei corrispondenti vocaboli etruschi.
Un'ultima fonte di documentazione indiretta della
lingua etrusca è costituita da un abbastanza ricco patrimonio
di appellativi e di toponimi documentati in Toscana ed anche nelle
regioni italiane dove si è affermato il dominio politico o
almeno quello culturale degli Etruschi, appellativi e toponimi che
fino al presente risultano essere privi di etimologia, nel senso che
non risultano essere derivati dalla lingua latina né da quelle
italiche, né infine da quelle germaniche di superstrato
(gotico, longobardo, franco, normanno). Per questi appellativi e
toponimi toscani e dialettali privi di etimologia - lo abbiamo
già accennato nel § 2 - esiste una forte ipoteca o
presunzione che risalgano appunto alla lingua etrusca
/19/.
Invece comunemente avviene che questi appellativi e toponimi toscani
e dialettali privi di etimologia vengano riportati al cosiddetto
"sostrato mediterraneo", il quale però è del tutto
ipotetico ed anzi è un autentico flatus vocis, dato che
non è confermato da nessun dato documentario, né
archeologico né storico né linguistico /20/.
A noi sembra persino molto strano che finora si sia dato tanto
credito a questo nebuloso e fantastico "sostrato mediterraneo",
mentre non si sia pensato al "sostrato etrusco", il quale è
documentato da tante e consistenti prove archeologiche, storiche ed
anche linguistiche. Oltre a ciò a maggior ragione noi
escludiamo che a questo del tutto ipotetico "sostrato mediterraneo"
sia da ricondurre - come troppi autori ancora ritengono - l'intera
lingua etrusca.
NOTE
1
- Vedi M. Pittau, Sul significato e l'origine del toponimo Roma,
negli «Atti dell'VIII Convegno Intern. di Linguisti»,
Milano 10-12 settembre 1992 (Paideia Editrice, Brescia, 1993, pagg.
453-466); ed anche negli Atti del X Convegno di studi «L'Africa
Romana», Oristano, 1992 (Sassari, 1994), pagg. 1129-1140.
2
- Vedi M. Pittau, Nuova iscrizione etrusca rinvenuta in Sardegna,
negli Atti del IX Convegno di studi «L'Africa Romana»,
Nuoro 13-15 dicembre 1991 (Sassari, 1992, pagg. 637-649); M. Pittau,
Ulisse e Nausica in Sardegna, Nùoro, 1994, Edizioni
Papiros-Insula, cap. 8 e nota 1 del cap. 12.
3
- Cfr. M. Pittau, Gli Etruschi e Cartagine - i documenti epigrafici
cit. nella nota 2.
4
- Qualcosa di analogo è avvenuto in Sardegna nei secoli XIX e
XX, fino alla 1ª guerra mondiale: le iscrizioni funerarie di
quel periodo che si trovano nei cimiteri della Sardegna risultano
scritte in lingua italiana, nonostante che i Sardi che allora
conoscevano ed usavano la lingua italiana raggiungessero la somma di
poche migliaia di individui appena. E ciò avvenne
perché la lingua della alfabetizzazione e della cultura ed
anche la lingua ufficiale dei Sardi in quel periodo era già
appunto quella italiana.
5
- Cfr. Ernout A., Les éléments étrusques du
vocabulaire latin, in «Bull. de la Soc. de Ling.», XXX,
1930, pag. 82 segg., dopo nel vol. Philologica, I, Paris, 1946, pag.
29.
6
- Vedi M. Pittau, LELN, pagg. 210-211.
7
- Essi sono: Ellanico, Timeo di Taormina, Anticle di Atene, Scimmo di
Chio, Scoliaste di Platone, Diodoro Siculo, Licofrone, Strabone,
Plutarco, Appiano, Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, Silio Italico,
Stazio, Cicerone, Pompeo Trogo, Velleio Paterculo, Valerio Massimo,
Plinio il Vecchio, Seneca, Servio, Solino, Tito Livio, Tacito, Festo,
Rutilio Namaziano, Giovanni Lidio, C. Pedone Albinovano. Anche dando
per scontato che molti di questi autori in realtà si sono
fatti la loro opinione su quella degli autori precedenti, pure la
loro adesione ai precedenti è per se stessa molto
significativa. Al contrario non risulta che la tesi di Dionisio di
Alicarnasso abbia avuto nel mondo antico qualche adesione.
8
- Ci limitiamo a citare i più famosi di questi studiosi: A.
Akerström, C. Battisti, J. Bérard, V. Bérard, V.
Bertoldi, K. Bittel, R. Bloch, A. Boethius, P. Bosch Gimpera, W.
Brandenstein, E. Brizio, O. Carruba, R.S. Conway, A. Della Seta, P.
Ducati, G. Dumézil, M. Durante, R. Dussaud, A. Furumark, G.
Ghirardini, W. Georgiev, A. Grenier, J. Heurgon, A. Hus, G.
Körte, H. Krahe, P. Laviosa Zambotti, M. Lejeune, D.R. Mac Iver,
G. Maddoli, S. Mazzarino, B. Modestov, O. Montelius, L.R. Palmer, G.
Patroni, G.B. Pellegrini, A. Piganiol, M. Pittau, I. Pohl, G.
Pugliese Carratelli, H. Rix, G. Säflund, F. Schachermeyr, J.B.
Ward Perkins.
9
- Tacito, Annales, IV, 55, 8; Livio, VII, 3, 7. Cfr. M. Pittau, OPSE,
§§ 10, 11, 56.
10
- G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi
dialetti, Torino, 1966, I, § 196.
11
- Nello stesso modo in cui attualmente molti poeti che scrivono in
lingua sarda fanno confusione fra il segno della zeta sonora z e
quello della zeta sorda tz.
12
- Cfr. M. Pittau, Colpo di glottide barbaricino, gorgia dorgalese e
gorgia toscana, in «Quaderni Bolotanesi», Cagliari-Sassari,
XV, 1989, pagg. 285-290.
13
- Anche G. e L. Bonfante, Lingua e cultura degli Etruschi, Roma,
1985, pag. 9, implicitamente lamentano il fatto che «L'etrusco
è stato studiato per lo più da archeologi e da storici,
specialisti di etruscologia».
14
- Cfr. M. Durante, Considerazioni intorno al problema della
classificazione dell'etrusco, in «Studi Micenei ed
Egeo-Anatolici», VII, 1968, pagg. 7-60.
Fino al presente la comparazione dell'etrusco col lidio è
stata purtroppo effettuata in maniera piuttosto superficiale e
pertanto si attende che vada affrontata in maniera approfondita.
D'altra parte, data la scarsità delle iscrizioni lidie (poco
più di 60) e data la loro attestazione relativamente tarda
(tutte posteriori al V sec. a. C.), non c'è da sperare molto
dalla comparazione approfondita che tuttavia noi auspichiamo
15
- Anche i Sardi infatti provenivano dalla Lidia, dalla cui capitale
Sardis essi avevano perfino derivato il loro nome e quello della loro
isola: cfr. M. Pittau, LELN, OPSE.
16
- M. Pittau, La questione dei numerali etruschi, negli «Atti del
Sodalizio Glottologico Milanese», XXXIII, Milano, 1994
(1996).
17
- Cfr. M. Pittau, TET, pagg. 10 segg.
18
- M. Pittau, LELN; M. Pittau, OPSE.
19
- Già molto significativi sono i risultati ottenuti dalle
opere di S. Pieri, Toponomastica della valle dell'Arno, in «R.
Accademia dei Lincei», appendice al vol. XXVII, 1918, Roma
(1919); S. Pieri, Toponomastica della Toscana meridionale (valli
della Fiora, dell'Ombrone, della Cècina e fiumi minori) e
dell' Arcipelago toscano, Siena, 1969; ma resta ancora moltissimo da
fare nella direzione indicata.
20
- Si noti ciò che ha scritto di questo "sostrato mediterraneo"
M. Durante, artic. cit., pagg. 23, 24: «L'unità
linguistica degli strati non indoeuropei e non camitosemitici
dell'area mediterranea è ormai un assunto insostenibile
[...] non è facile credere che focolai paleolitici,
isolati e dispersi attraverso un'area vastissima, fruissero di un
linguaggio più o meno omogeneo».
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