LA LINGUA ETRUSCA: ANATOMIA DI UN MISTERO

Intervista ad un panel di studiosi sullo stato degli studi della lingua etrusca. Una iniziativa del Gruppo Archeologico del Territorio Cerite www.gatc.it. Risposte del nostro collaboratore prof. MASSIMO PITTAU, dell’Università di Sassari


1. Il "mistero"

La lingua etrusca è attestata da circa 13.000 documenti epigrafici per un arco cronologico che sostanzialmente va dal VII al I secolo a.C. Nell'Italia antica, anche mettendo insieme tutte le altre lingue attestate, un numero simile non è nemmeno lontanamente raggiungibile e persino nella lingua di Roma, prima della nascita della letteratura nel III secolo a.C., non abbiamo che una manciata di iscrizioni.- Tali documenti sono redatti in un alfabeto molto simile agli alfabeti greci dell'epoca, con alcune differenze dovute a peculiarità ed esigenze proprie dell'etrusco. La direzione della scrittura nella quasi totalità dei testi è da destra a sinistra, modalità ben attestata nei paesi del Mediterraneo dall'antichità ad oggi..Salvo pochi casi, quindi, la lettura delle iscrizioni etrusche non è problematica. E l'interpretazione stessa della maggior parte dei testi fruibili nei musei o ancora nel loro posto originario non mette normalmente in seria difficoltà gli studiosi. Eppure non solo il "grande pubblico" ma anche le persone di cultura medio-alta sono portate a pensare che l'etrusco sia una lingua mal conosciuta se non addirittura misteriosa. A cosa si deve la persistenza di tale convinzione?

Il fatto che la lingua etrusca sia “mal conosciuta, se non addirittura misteriosa” a mio giudizio deriva da un notevole avvenimento culturale: per 50 anni la scuola archeologica italiana ha adottato la tesi – espressa per la prima volta da Dionigi di Alicarnasso - secondo cui «la lingua etrusca non è comparabile con nessun’altra». Sennonché questa tesi in realtà è stata adottata in maniera del tutto acritica, dato che nessuno studioso – ammesso ma non concesso che possedesse una conoscenza scientifica di tutte le lingue del mondo antico – ha mai effettuato un confronto tra l’etrusco e ciascuna di queste lingue con l’intento appunto di dimostrare la loro assoluta eterogeneità.
E il risultato ultimo di questa presa di posizione acritica è stato che in pratica per 50 anni lo studio scientifico della lingua etrusca è stato grandemente ostacolato o almeno fuorviato.
Anche perché i giovani studiosi di glottologia, quelli che usano come primo e principale metodo e strumento di ricerca e di studio la “comparazione”, non sono stati di certo invogliati ad interessarsi dell’etrusco dichiarato e proclamato “lingua non comparabile con nessun’altra”.

Allo stesso da Dionigi di Alicarnasso risale anche l’altra tesi secondo cui gli Etruschi erano “autoctoni” in Italia, ossia non erano venuti dalla Lidia, regione dell’Asia Minore, come invece afferma in un suo notissimo passo il padre della storiografia occidentale, Erodoto. Sennonché, mentre Dionigi è rimasto isolato nella sua supposizione, la tesi di Erodoto è stata ripetuta e ribadita da ben altri 30 autori greci e latini. E riesce perfino difficile comprendere come mai la scuola archeologica italiana per mezzo secolo si sia schierata dalla parte di Dionigi, giudicando buona e da accettare la dichiarazione di un solo autore e respingendo invece come errata la differente dichiarazione di ben altri 31 autori antichi. Posizione, questa, del tutto priva di critica storiografica, che non si riesce neppure a comprendere se non supponendo che, quando essa è maturata alla fine degli anni Trenta, sia stato pagato un pesante tributo alla teoria fascista della “purezza della razza italica”.
In ogni modo ormai in questi ultimi venti anni le cose sono cambiate: la massima parte degli studiosi, archeologi, storici, storici delle religioni e soprattutto i linguisti si sono dichiarati favorevoli alla tesi della origine mediorientale degli Etruschi.
D’altronde è recente la notizia che ricerche basate sullo studio del DNA hanno portato a connettere gruppi di Toscani con gruppi umani dell’Asia Minore ed inoltre una particolare razza di bovini toscani, quella detta «Chianina», con razze bovine del Medio Oriente.
In ultimo c’è anche da considerare che la nota usanza degli Etruschi di affiggere un chiodo nel tempio della Dea Nortia per il passare di ogni anno evidentemente implicava un terminus a quo o data di inizio e precisamente la data del loro arrivo in Italia, che essi tenevano a ricordare e a conservare e che probabilmente era l’anno 949 avanti Cristo.


2. La "decifrazione"

La svolta nei tentativi di decifrazione dell'egiziano antico fu rappresentata dal ritrovamento della stele di Rosetta, un decreto del II secolo a.C. che riportava a fronte del testo in geroglifico anche la versione in greco. Per l'etrusco abbiamo le celebri lamine di Pyrgi, con testo a fronte in punico, e una trentina di epitaffi con la traduzione in latino. Qual è stato l'apporto dato dalle lamine di Pyrgi e dalle bilingui etrusco-latine alla comprensione dei testi etruschi? Hanno rappresentato anch'esse una svolta per l'etruscologia?

La parola “decifrazione” riferita ad una antica lingua documentata da testi scritti è ambigua, perché in effetti implica due operazioni differenti: da un lato c’è la “decifrazione dei grafemi letti per trasformarli in fonemi (o “significanti”) pronunziati, dall’altro c’è la interpretazione dei “significati” espressi da quei grafemi/fonemi. Orbene la “decifrazione dei grafemi etruschi” e la loro trasformazione in fonemi pronunziati è stata già effettuata e in modo facile, in virtù del fatto che l’alfabeto etrusco si interpone fra due alfabeti del tutto conosciuti, quello greco e quello latino. In virtù di questo fatto si può affermare con certezza che qualsiasi testo etrusco si può leggere e pronunziare con quasi totale precisione.
Invece la “decifrazione dei significati” o la loro interpretazione è stata molto lunga e laboriosa, ma ormai ha fatto molti e sostanziali passi in avanti, soprattutto negli ultimi venti anni.
L’apporto delle Lamine di Pyrgi alla “decifrazione o interpetazione dei testi etruschi” differenti è stato pressoché nullo, dato che le due versioni del documento, quella etrusca e quella punica, si corrispondono tra loro soltanto a grandi linee (cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis – Lamine di Pirgi – e altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, Libreria Koinè).

3. Metodi utilizzati per l'interpretazione

Utilizzo dei testi bilingui a parte, quali sono oggi i principali metodi con i quali si procede all'interpretazione dei testi etruschi? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell'uno rispetto agli altri?

«Confesso che le lunghe discussioni che si sono fatte nei decenni passati sui “metodi” da adoperare per la interpretazione dei testi etruschi, a me sono sempre sembrate oziose. A mio parere tutti i metodi sono buoni quando si tratta di “decifrare il significato” di una iscrizione antica. Anche il cosiddetto “metodo etimologico” è buono e può essere efficace, quello che invece viene totalmente condannato e respinto dagli archeologi. C’è infatti da considerare che gli Etruschi non sono vissuti entro una campana di vetro, ma al contrario sono sempre stati in stretto contatto con gli Italici, i Romani, i Greci ed i Cartaginesi, per cui è ovvio ritenere che vocaboli italici, latini, greci e punici siano entrati nel lessico etrusco e viceversa, ragion per cui questi possono essere utilmente richiamati per interpretare uguali o similari vocaboli etruschi.
In ogni modo il metodo che, a mio avviso, deve trovare la preferenza iniziale è quello che comunemente viene chiamato “metodo oggettivo”, mentre io preferisco chiamarlo “metodo supportuale”. A mio fermo giudizio, in una qualsiasi iscrizione si deve in primo luogo considerare il “supporto” in cui risulta scritta: perché è evidente che l’iscrizione di un cippo sepolcrale contiene il nome e il gentilizio del defunto ed eventualmente quello dei suoi familiari, la sua età e le cariche ricoperte; l’iscrizione di un gioiello o di un vaso prezioso può contenere il nome del donatore e/o quello del donatario; l’iscrizione di un ex voto può portare il nome di una divinità ed eventualmente indicare una grazia chiesta oppure il ringraziamento per averla ottenuta; una moneta contiene il nome della città o della confederazione di città che l’ha emessa, ecc.

4. La qualità dei documenti

Il numero dei documenti attestati è davvero enorme. Non prendendo in considerazione i pochi testi più corposi, oggetto della prossima domanda, cosa si può dire rispetto alla qualità, cioè alla
rappresentatività, di questi documenti?

Nella loro stragrande maggioranza le numerosissime iscrizioni brevi sono state già tradotte e interpretate dagli etruscologi. Orbene, esaminate e studiate con attenzione e con pazienza queste numerosissime iscrizioni già tradotte e confrontate le une con le altre, è possibile trarne lumi per le iscrizioni che non sono state ancora interpretate e tradotte. È quanto mi lusingo di avere fatto nella composizione della mia recentissima opera «Dizionario della Lingua Etrusca» (Sassari 2005, Librerà Koinè), che è il primo e finora unico pubblicato e che contiene tutto il materiale linguistico rinvenuto sino all’anno 2005.

5. I testi lunghi
I documenti di una certa lunghezza sono solo una dozzina. Fra questi spicca, sia per lunghezza (circa 1200 parole) che per eccezionalità, il libro di Zagabria scritto su panno di lino, l'unica opera non epigrafica in etrusco pervenuta fino a noi. Del novero fanno parte - tanto per citare i più noti - le lamine d'oro di Pyrgi, la tegola di Capua, il cippo di Perugia, la tavola di Cortona e l'epitaffio di Laris Pulenas di Tarquinia. In genere tali testi sono considerati come i più ostici e sono quelli su cui si discute di più. A cosa è dovuta e in cosa consiste questa maggiore difficoltà? E quali sono le più recenti acquisizioni?

Di tutti i citati testi lunghi io ho presentato una possibile e verosimile interpretazione e traduzione nelle mie due opere che ho citato, con esclusione della Tegola di Capua e del Libro di Zagabria.
La difficoltà di questi ultimi due testi non dipende affatto dalla loro lunghezza (che anzi dovrebbe essere un elemento assai favorevole per la loro interpretazione e traduzione), ma dipende dal fatto che, essendo documenti di carattere religioso, il loro linguaggio è estremamente specializzato o tecnico e quindi è molto lontano dal parlato comune. Siccome la mia età molto avanzata non mi consente di lanciarmi in questa nuova avventura linguistica, io mi permetto di indicare ai giovani quale dovrà essere la via per riuscire ad interpretarli. Premesso che, come tutti sappiamo, gli Etruschi hanno tramandato ai Romani molte credenze religiose, c’è ragionevolmente da supporre che ne abbiano tramandato anche molta terminologia religiosa. Ebbene, i giovani studiosi che accetteranno di correre questa avventura dovranno studiare molto minutamente tutte le credenze e pratiche religiose dei Romani ed insieme la relativa terminologia. Ad onore del vero questa strada è già stata indicata e affrontata da uno studioso austriaco che non ha mai avuto buon nome tra gli archeologi (anche perché li ha invitati a stare nell’ambito della loro archeologia e a non fare i linguisti), Ambros Joseph Pfiffig. Però, a mio modesto avviso, se il Pfiffig ha avuto il merito di indicare la via esatta, forse ha avuto anche il torto di avere tratto conseguenze premature o affrettate dai suoi studi.

6. La parentela linguistica

Se la maggior parte degli studiosi appare allineata con la celebre definizione di Dionigi di Alicarnasso (storico dell'epoca di Augusto) secondo cui la lingua etrusca non aveva riscontro e somiglianza con le altre lingue conosciute, abbiamo esempi di studiosi che hanno ritenuto di riscontrare una parentela più o meno stretta con altre lingue anche assai diverse fra loro.
Qual è la sua posizione in merito? E quale sarebbe, comunque, ai fini della comprensione dei testi il guadagno che potremmo conseguire stabilendo una parentela con l'una piuttosto che con l'altra lingua?

Gli studiosi che sono allineati con la nota tesi di Dionigi di Alicarnasso sono generalmente gli archeologi, quelli che aderiscono ancora alla tesi della «lingua etrusca non comparabile con nessun’altra». I linguisti invece, almeno in generale, la pensiamo diversamente e comparazioni dell’etrusco con altre lingue le abbiamo fatte e continuiamo a farle.
In via particolare io appartengo alla schiera dei linguisti che ritengono che anche l’etrusco sia una “lingua indoeuropea”. Ovviamente qui non mi posso dilungare sulle numerose prove che ho presentato nella mia opera La Lingua Etrusca – grammatica e lessico, 1997, Libreria Koinè, Sassari). Mi limito solamente a segnalare che ho pure dimostrato – finora non contraddetto da alcuno – che perfino i numeri etruschi della prima decade trovano riscontro nei corrispondenti numeri di lingue indoeuropee. E la cosa è della massima importanza, dato che tutti sappiamo che la prima prova della parentela delle varie lingue indoeuropee è stata fornita proprio dalla omoradicalità dei numeri della loro prima decade.


REPLICA

I) La situazione in cui si trova la lingua etrusca nelle mani di alcuni linguisti mi fa venire nella mente un’immagine o paragone: l’etrusco è come un essere extra-terrestre, capitato non si sa come sulla terra, il quale, gravemente mutilato, viene ricoverato in un nostro ospedale: i medici non conoscono per nulla la struttura fisiologica del paziente, non conoscono una parola della sua lingua. Ed allora lo sottopongono alle più sofisticate analisi e terapie, molte creandole appositamente ed ex novo. Col che questi colleghi dimostrano di pagare ancora un pesante tributo alla tesi – spesso sostenuta, ma mai dimostrata» - dell’etrusco «lingua non comparabile con nessun’altra».
Nel mio «Dizionario della Lingua Etrusca» compare anche la traduzione di circa 1600 iscrizioni, molte delle quali erano già state tradotte da linguisti precedenti e godevano dell’unanime consenso degli specialisti. Ebbene, chi esamina con attenzione ed una per una queste iscrizioni ormai pacificamente “tradotte”, non è in grado di trovare e indicare alcun fenomeno linguistico che non compaia in altre lingue conosciute, non riesce cioè a dimostrare che l’etrusco era una «lingua non comparabile con nessun’altra».
II) Nei citati 50 anni in cui regnò sovrana questa tesi, la parola d’ordine era questa: «proibito “tradurre” le iscrizioni etrusche, lecito solamente “commentarle”. E l’ovvio risultato fu che molti di questi “commenti” erano nient’altro che “aria fritta”.
III) Per il progresso della nostra discilpina può essere molto utile liberarsi da certe “sudditanze” psicologiche, anche se sono pacifiche e conclamate. Io non esito a dire che non credo che Helmut Rix abbia contribuito parecchio alla conoscenza dell’etrusco. Certamente egli ha “scritto" e “parlato” molto sull’etrusco, ma nella realtà ha finito col “dire” poco, molto poco su questa lingua. Il merito maggiore di questo studioso sarebbe la sua opera «Etruskische Texte», la quale però purtroppo è piena di difetti, che non abbiamo tralasciato di mettere in risalto io ed altri critici (fra cui la stramberia dell’uso di ben 8 grafemi nuovi per indicare le due sibilanti!). In realtà è un’opera da maneggiare con cautela, ciò che rende ancora utile e indispensabile il «Thesaurus Linguae Etruscae» promosso da Massimo Pallottino, con la collaborazione di altri studiosi.

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