Chi erano i PAGANI VNERITANI della Marmilla?

Mi trovo nella necessità, a titolo di premessa, di fare un riferimento a quel grosso fenomeno alimentare ed insieme economico che è lo smercio e l'uso delle acque minerali vendute in bottiglia, per richiamare l'attenzione dei miei lettori sulla denominazione di queste acque minerali: molte, forse la maggioranza, derivano la loro denominazione da un santo o da una santa cristiani.
Quale è la esatta spiegazione di questa denominazione sacrale delle acque minerali non soltanto in Italia, ma anche in tutta l'Europa di tradizione cattolica? La spiegazione di questo strano fenomeno in realtà è molto semplice: in antico, prima dell'avvento del cristianesimo, tutte le sorgenti e soprattutto quelle alla cui acqua si attribuivano virtù curative, erano dedicate a divinità pagane, ad esempio, ad una delle numerose ninfe. Ogni sorgente dunque si riteneva che avesse dietro di sé la presenza di una divinità, maschile o femminile. Quando però il cristianesimo finì col trionfare sul paganesimo, i cristiani, per effetto del forte attaccamento degli uomini alla loro credenza dell'esistenza di una divinità dietro ogni sorgente, misero in atto il procedimento della interpretazione, cioè della assimilazione o della identificazione. E in questo modo si spiega dunque la esatta ragione delle acque chiamate di Sant'Angelo, San Benedetto, San Bernardo, San Giacomo, San Gemini, San Giorgio, San Leonardo, San Pantaleo, San Pellegrino, San Martino, Santa Lucia, ecc., ecc. Questa denominazione sacrale delle acque in effetti porta ancora in sé le tracce evidenti e certe del passaggio graduale che su questo particolare punto si fece dal precedente paganesimo al nuovo cristianesimo.
D'altra parte questo fenomeno della assimilazione o identificazione tra la religione pagana e quella cristiana, che globalmente viene chiamato «sincretismo religioso», in effetti ha avuto altri e numerosi aspetti. Ad esempio, molte chiese cristiane risultano fabbricate in siti nei quali in precedenza c'era un tempio pagano.
Di questo «sincretismo religioso pagano-cristiano» abbiamo numerosi riscontri anche in Sardegna. Oltre al caso delle acque minerali chiamate di Sant'Angelo, San Giacomo, San Giorgio, San Leonardo, Santa Lucia, San Martino e san Pantaleo, molto importante e significativo è il fatto che nello stesso sito di numerosi santuari cristiani di campagna si trovano resti archeologici che riportano alla religiosità pagana e precisamente a quella nuragica. Ciò lascia chiaramente intendere che quei santuari rurali in precedenza erano pagani e nuragici e dopo sono diventati cristiani. Cito tre esempi che sono molto chiari ed insieme molto significativi: il santuario cristiano di Santa Vittoria di Serri sicuramente si è impiantato là dove in precedenza c'era un santuario nuragico. E la medesima cosa è avvenuta a Santa Cristina di Paulilatino ed anche a Santu Gantine di Sedilo.
È molto importante precisare che la interpretazione o - chiamamola pure - la sostituzione delle divinità pagane con santi cristiani non veniva fatta a caso, ma veniva fatta cercando di mantenere una omologia essenziale tra quelle e questi. Il santo cristiano doveva essere omologo al dio pagano, doveva cioè avere uguali o almeno simili attributi e caratteristiche.
Sono in grado di citare tre esempi, che sono molto evidenti ed insieme molto significativi.
I) Io ho già avuto modo di scrivere che la subregione della Sardegna sud-orientale che è il Sárrabus deriva il suo nome da un antico centro abitato che l'«Itinerario di Antonino» (80, 5) chiama Sarcapos o Sarrapos. Questo stesso centro abitato viene dall'Anonimo Ravennate (V 26) chiamato Sariapis. Inoltre ho già segnalato che il nome di Saípros, con cui Tolomeo (III 3, 4) chiama il Flumendosa, sia da emendare in Sárrapos. Ciò premesso, ho già scritto che il sardo Sárrapos in effetti non è altro che la nota grande divinità egizio-greca Sárapis/Sérapis «Serapide», che il faraone Tolomeo I (305-283 a.C.) era riuscito a diffondere in tutti i paesi del Mediterraneo. Dunque, a mio giudizio, è molto probabile che sia il fiume Sárrapos (Flumendosa) sia il corrispondente centro abitato situato nelle vicinanze della sua foce fossero dedicati al dio Sárapis/Sérapis «Serapide»(1).
D'altra parte ho pure scritto di ritenere che, dei tre villaggi che attualmente costituiscono il Sarrabus, San Vito, Muravera e Villaputzu, come erede dell'antico Sarrapos sia da individuare San Vito (Santu Idu). A favore di questa scelta interviene una importante circostanza di carattere religioso: da un lato è da ricordare che Serapide era in primo luogo il dio del Sole, dall'altro è da considerare che San Vito, un martire giustiziato sotto Diocleziano, era molto venerato dai cristiani, per il motivo che, come ha scritto Carlo Tagliavini, «cadendo la sua festa, il 15 giugno, questa venne a coincidere colle feste del solstizio estivo in cui si facevano grandi balli all'aperto (... "balli di San Vito")»(2). A me dunque sembra molto probabile che un centro abitato in precedenza consacrato al dio pagano Serapide/Sole, sia stato dai cristiani dedicato o consacrato ad un santo cristiano, il quale era pur'esso connesso in un certo modo col sole.
II) Il paese di Dolianova nell'Ottocento si chiamava Santu Pantaleo, in onore del santo patrono(3), al quale è dedicata una grande e bella chiesa romanica, la cui costruzione risale ai secoli XII-XIII. Questa chiesa, che era la primaziale della soppressa diocesi di Dolia, è stata costruita sul sito di una precedente molto più antica, come dimostra il fatto che sotto il presbiterio di quella odierna è stato trovato un fonte battesimale ad immersione, scavato sulla roccia, che risale alla fine del V secolo dopo Cristo.
Però è anche probabile che la chiesa cristiana abbia sostituito un precedente tempio pagano, come lasciano intravedere sia un sarcofago baccellato romano, che, sostenuto da due corti fusti di colonne romane, è sistemato sulla fiancata esterna della chiesa a formare un'edicola, sia e soprattutto l'architrave dell'ingresso centrale, che presenta scolpito un serpente. È abbastanza noto che questo animale era sacro al dio pagano della salute Esculapio e probabilmente anche all'omologo dio nuragico o protosardo Merre. Ed infatti San Pantaleo o Pantaleone, martire di Nicomedia nella Bitinia, era medico e, come tale, è il santo patrono dei medici.
È molto probabile dunque che nello stesso sito della odierna chiesa parrocchiale di Dolianova il cristiano san Pantaleo, medico e patrono dei medici, abbia sostituito un precedente culto di Esculapio-Merre, dio della salute.
III) Del dio nuragico o protosardo Merre noi moderni siamo venuti a conoscenza in virtù di una base di colonna in bronzo, rinvenuta nel 1861 a San Nicolò Gerrei, in località Santu Jaci, dove esistevano resti di un antico tempio (si osservi la presa di possesso del sito di questo tempio pagano da parte del cristiano santu Jaci). Questa base bronzea riporta una iscrizione trilingue, cioè in latino, in greco ed in punico, la quale risulta fatta da un certo Cleone, socio di una società per l'estrazione del sale, per grazia ricevuta dalla divinità del tempio, che egli chiama Aescolapius Merre in lingua latina, Asklepiós Merre in lingua greca ed Esmun Merre in lingua punica(4). L'iscrizione, che è stata studiata da numerosi autori, è stata riportata alla prima metà del II secolo dopo Cristo. Siccome il vocabolo Merre compare in tutte e tre le versioni della iscrizione, si intravede che il vero nome del dio venerato in quel santuario era per l'appunto Merre, rispetto al quale gli altri tre nomi, latino greco e punico, non saranno stati altro che traduzioni interpretative od assimilative. E c'è pertanto da concludere che Merre era il dio dei Protosardi titolare di quel santuario, dio che presiedeva alla salute dei suoi fedeli, proprio come facevano i corrispondenti dèi latino, greco e punico.
Ciò premesso, c'è da fare attenzione alla circostanza che san Pantaleo è il santo patrono non soltanto di Dolianova, ma anche di Macomer e titolare della chiesa parrocchiale di questa cittadina. Ebbene, di recente io ho proposto per il toponimo Macomer, o meglio per Maccummere, Maccumere, la derivazione dalla espressione maqom Merre, da intendersi come «città di Merre». E si tratterebbe di un toponimo ibrido, perché composto dell'appellativo punico maqom «sito, luogo, sede» e del teonimo nuragico Merre. Anche qui pertanto è molto probabile che il dio salutare Merre, antico protettore protosardo di Macomer, sia stato assimilato e sostituito col cristiano san Pantaleo, medico e protettore dei medici.
Concludendo quest'altro punto, è dunque molto probabile che nel Sarrabus, a Dolianova ed a Macomer due differenti divinità pagane, Serapide e Merre, siano state dai cristiani interpretate e sostituite con due omologhi santi cristiani, san Vito e san Pantaleo.

* * *

Tutto quanto ho detto finora costituisce una premessa indispensabile per quanto riguarda il problema che intendo svolgere in questo mio intervento, quello relativo alla identificazione dei Pagani Uneritani della Marmilla, in Sardegna. Come è ormai noto a molti, questi sono citati in una iscrizione latina, incisa su un grande blocco di arenaria, che è stato trovato casualmente nel 1994 presso la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena del villaggio di Las Plassas, in provincia di Cagliari. Questi Pagani Uneritani sono citati nell'iscrizione come coloro che hanno costruito e dedicato un tempio a Giove Ottimo Massimo.
In conseguenza delle cose da me dette in premessa, si deve escludere come pochissimo verosimile che la chiesa di Santa Maria Maddalena, presso cui è stato rinvenuto il masso con l'iscrizione, possa aver sostituito il precedente tempio pagano dedicato a Giove. Nell'ampio fenomeno del sincretismo religioso pagano-cristiano che ho su delucidato, ho già messo in risalto che nel processo di interpretazione e di sostituzione di divinità pagane con santi cristiani si teneva molto a conservare le esatte attribuzioni di quelle e di questi, compresa la differenza di sesso. È dunque del tutto improbabile che Santa Maria Maddalena abbia sostituito un precedente culto pagano di Giove, dio maschio e per di più il massimo degli dèi pagani.
Il tempio dedicato a Giove Ottimo Massimo invece doveva essere sulla cima della collina della Marmilla, da cui sarà precipitato a causa della notevole ripidità dei suoi fianchi. A questo proposito sia sufficiente ricordare che nel 1952 un sindaco di Las Plassas fece precipitare con la dinamite una parte del castello medioevale che si trova sulla cima della collina, perché risultava pericolante e quindi molto pericoloso per il paese(5).
Ad interpretare che anche il tempio di Giove Ottimo Massimo fosse sulla cima della collina intervengono cinque differenti considerazioni: 1ª) I templi pagani, proprio come moltissime chiese cristiane, tutte le volte che era possibile, venivano costruiti sulla cima di colli o almeno in siti elevati, sia a titolo di riconoscimento ed affermazione della "supernità" della divinità venerata, sia al fine di rendere quei luoghi di culto facilmente visibili dal maggior numero di fedeli. 2ª) A maggior ragione un tempio di Giove Ottimo Massimo andava costruito in luoghi elevati come riconoscimento ed affermazione della sua superiorità rispetto a tutti gli altri dèi. 3ª) E ancora a maggior ragione questo si doveva fare, in quanto Giove era il dio che governava i fulmini, quelli che cadono frequentemente proprio sulle cime delle montagne e delle colline, venendo interpretati dagli antichi come presa di possesso del sito da parte del dio. 4ª) L'esistenza di un luogo di culto pagano sulla cima del colle della Marmilla è fortemente indiziata da un masso, una volta inserito nella muraglia dei resti del castello medioevale, che - come ha scritto Giovanni Lilliu, scopritore e fotografo del reperto - portava la raffigurazione di «una coppia di schematiche figurine umane a mezzo busto, in rigorosa simmetria, che levano in alto entrambe le mani», in un gesto di preghiera «che ricorda, ma non è, quello dell'orante paleocristiano». E poi anche un «blocco rilevato a segmento di colonna, facente parte d'uno spartito architettonico»(6). 5ª) Giorgio Murru, che in uno studio molto accurato ha fatto la descrizione dei resti del castello medioevale della Marmilla, ha trovato e segnalato nella costruzione resti e ruderi di «una struttura preesistente». Per il vero egli ha pensato a resti di fasi precedenti dello stesso castello medioevale. Ma la questione è che quei ruderi - come ho avuto modo di verificare di persona - risultano fatti secondo una tecnica muraria molto differente da quella usata per costruire il castello medioevale. Inoltre - e questo è ancora più importante - una parte di quei ruderi risulta fuori dell'area del castello o, in altre parole, la pianta del castello medioevale non coincide totalmente con quella occupata dai ruderi. È dunque molto probabile che questi appartenessero ad un precedente edificio, che io ritengo essere stato appunto il tempio di Giove Ottimo Massimo. Questo tempio poi ed il suo frontone erano volti esattamente - ed anche logicamente - verso il villaggio sottostante, come dimostra il fatto che il masso con l'iscrizione latina, rotolato o fatto rotolare dalla cima, si è fermato esattamente presso la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena.
Dall'accuratissimo studio che Attilio Mastino ha dedicato all'argomento che ci interessa, traggo una importante considerazione di Cesare Letta, che il Mastino stesso mostra di condividere appieno: «il punto di aggregazione del pagus era di norma un santuario, intorno a cui dovevano organizzarsi l'attività economica (fiere e mercati) e quella amministrativa (assemblea del pagus, elezione dei suoi magistrati)»; e ciò spiegherebbe come mai «la stragrande maggioranza delle opere pubbliche curate dai magistrati del pagus o comunque in esecuzione di delibere del pagus riguardi un santuario e i suoi annessi, senza che si debba necessariamente supporre che il pagus avesse competenze esclusivamente religiose»; si spiega la «funzione aggregativa» dei santuari rurali, moltissimi dei quali erano dedicati a Giove(7).
Dunque è molto probabile - dico io - che al tempio di Giove Ottimo Massimo della cima della collina di Marmilla facesse capo un pagus, e precisamente quello che col passare del tempo ha cambiato il suo nome in quello dell'odierno villaggio di Las Plassas.
Da un altro punto di vista è molto importante precisare che con tutta certezza lo stanziamento umano di Las Plassas risale almeno all'epoca classica, probabilmente al I secolo dopo Cristo, come dimostra appunto la iscrizione relativa ai Pagani Uneritani, quelli che costruirono e dedicarono il tempio a Giove Ottimo Massimo, iscrizione che, come ha dichiarato il Mastino, riporta appunto a quella data(8).
Ebbene, è possibile sapere chi erano effettivamente questi antichi Pagani Uneritani della Marmilla? A me sembra di sì.
Premetto che esattamente dieci anni or sono io avevo avuto modo di osservare per la Sardegna un interessante fatto linguistico, che alla fine si è rivelato carico anche di importanti risvolti storici e socio-economici. Avevo notato che nella Sardegna in generale, ma soprattutto nelle sue zone di intensa coltivazione cerealicola del meridione dell'Isola, sono attestati numerosi gentilizi romani in caso genitivo: Serrenti, Solemini(-s), Suelli, Tuili, Turri, ecc., rispettivamente genitivi dei gentilizi romani Serrentius, Solemnius, Suellius, Tuilius, Turrius. Ed avevo compreso e prospettato che quel genitivo era sorretto da un appellativo in caso nominativo, cioè dal lat. villa «fattoria, tenuta», che però aveva finito col cadere. Avevo dunque prospettato che i nomi dei citati villaggi sardi in realtà derivassero rispettivamente dalla locuzione villa Serrenti «fattoria di Serrentio», villa Solemni «fattoria di Solemnio», villa Suelli «fattoria di Suellio», ecc., con riferimento ad altrettanti latifondisti romani, quelli che erano gli appaltatori ed i padroni della produzione granaria della Sardegna, da esportare a Roma(9).
Ebbene, a me sembra che siamo nelle condizioni di prospettare la medesima spiegazione anche per l'etnico che ci interessa. Inizialmente nella Marmilla, anzi esattamente a Las Plassas, sarà stata impiantata una villa Uneri «fattoria o tenuta di Unerio», dal gentilizio romano Unerius. Questo risulta realmente documentato in un epitafio latino rinvenuto a Costantina, nella Numida, il quale suona esattamente così: D M VNERIVS PRIMVS V A LXXV, cioè «agli Dei Mani - Unerio Primo visse anni 75»(10). Il fatto che il gentilizio Unerius risulti attestato sia nell'Africa proconsolare sia in Sardegna si adatta alla perfezione alla ormai acquisita certezza storica, circa gli stretti rapporti esistenti fra queste due terre in epoca imperiale romana.
Essendosi la originaria villa «fattoria o tenuta» trasformatasi in un pagus «villaggio, paese», il nome originario di villa Uneri si sarà trasformato in quello di pagus Uneri, i cui abitanti ovviamente presero la denominazione di pagani Uneritani.
La trasformazione dell'originaria villa in un pagus certamente era l'effetto della circostanza che la regione della Marmilla - assieme con quella della Trexenta - è stata sempre nel passato considerata la zona più ricca della Sardegna dal punto di vista agricolo. E che questo pagus Uneri fosse diventato molto importante è dimostrato da due circostanze: innanzi tutto i suoi abitanti furono in grado di costruire un tempo a Giove Ottimo Massimo addirittura sulla cima della collina, diventando - come ha già detto A. Mastino - il loro Campidoglio; in secondo luogo il suo aggettivo etnico Uneritani si è caricato del suffisso -itanus, che era tipico degli etnici dei centri abitati più importanti dell'Isola: Karalitani, Sulcitani, Neapolitani, Curulitani, Turritani, ecc.
Siccome la spiegazione che ho dato della espressione Pagani Uneritani non dà luogo a nessuna difficoltà, né linguistica né storiografica, ritengo che debba esser ricuperata ed accettata la attestazione, che Giovanni Serreli aveva trovato ed indicato in un documento medioevale dell'anno 1102, di una località della Marmilla chiamata Uneri: «dedimi in Uneri terra aratoria ante sa de patre meu»(11). Questa attestazione andrebbe accettata anche nella ipotesi che essa, secondo quanto ha affermato Paolo Merci, dovrebbe esser letta esattamente «in Nuneri»(12); in questo caso infatti la N iniziale del toponimo andrebbe considerata come una semplice postsonanza, fonica e grafica, della consonante finale della preposizione precedente.
Concludo dicendo che la Villa Uneri «fattoria di Unerio», poi Pagus Uneri «villaggio di Unerio» era l'antica denominazione di quel villaggio che ora si chiama Las Plassas, traduzione spagnola della denominazione sarda is Pratzas e che inoltre la sua antica denominazione risulta attestata ancora in epoca medioevale come Uneri semplicemente.
Si impone allora l'ultimo problema: perché il villaggio di Uneri ha finito col prendere la denominazione di is Pratzas? Io ritengo che ciò sia avvenuto come effetto del particolare uso che i castellani, prima arborensi e in seguito catalani ed infine spagnoli avranno fatto di questo paese. Io ho già avuto modo di spiegare che molto probabilmemte is Pratzas significa «le piazzole per le aie», derivando chiaramente dal lat. platea «piazza»(13). Il fatto che questo villaggio si trovi ai piedi della collina della Marmilla, immediatamente sotto il castello, lascia intravedere l'esatta ragione del plurale is Pratzas «le Aie»: molto probabilmente i castellani, prima amministratori dei Giudici arborensi e dopo dei Catalani e degli Spagnoli, imponevano ai contadini della zona l'obbligo di effettuare la trebbiatura tutti nel medesimo sito, sia pure in differenti aie, con l'intento preciso di controllare l'effettivo raccolto di ciascuno e di esigere l'esatto corrispettivo di tasse in natura o in moneta(14). In maniera analoga, dunque, a quella seguita dallo stato italiano alla fine dell'Ottocento, quando per far pagare la famigerata tassa sul macinato, imponeva ai contadini di effettuare la macinatura del loro grano esclusivamente in mulini che erano forniti di un apparechio che registrava il numero esatto delle macinature fatte.
La più antica attestazione che sono riuscito a rintracciare di Las Plassas come tale si trova nell'elenco dei villaggi che sottoscrissero la pace fra Eleonora d'Arborea e Giovanni d'Aragona del 1388 nella forma di sas Plaças(15). Ed ovviamente il villaggio è citato, assieme col suo castello della Marmilla, anche nella Chorographia Sardiniae di G. F. Fara (anni 1580-1589) come Plateae della diocesi di Usellus(16).

Massimo Pittau




NOTE

1) Vedi M. Pittau, La Sardegna Nuragica, V ristampa, Sassari, 1988, pag. 160; M. Pittau, I nomi di paesi città regioni monti fiumi della Sardegna - significato e origine, E. Gasperini Editore, Cagliari, 1997, sub vocibus.
2) C. Tagliavini, Un nome al giorno - origine e storia di nomi di persona italiani, I-II, Torino, 1957, ristampa Bologna, 1972, vol. I, pagg. 193-194.
3) Cfr. G. Spano, Vocabolario Sardo Geografico, Patronimico ed Etimologico, Cagliari, 1873, pag. 45.
4) Vedi Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) X 7856.
5) Sia sufficiente accennare appena al fatto che Marmilla, in sardo locale Marmidda, deriva dal lat. mamilla «mammella, ma probabilmente anche con l'intrusione di mármaru «marmo», per cui esattamente significa «mammella pietrificata». Esattamente come le Perdas Marmuradas di Macomer significano esattamente le «Pietre mammellate pietrificate». La collina infatti si simpone nel paesaggio in maniera vistosa come una bella mammella di donna. Vedi M. Pittau, I nomi di paesi cit. sub voce; M. Pittau, Dizionario della Lingua Sarda - fraseologico ed etimologico, I vol., Cagliari, 2000, E. Gasperini Editore, 607, sub voce mamidda.
6) G. Lilliu, Cultura & Culture - Storia e problemi della Sardegna negli scritti giornalistici, Sassari, 1995, pag. 342-345. La fotografia dei due oranti e probabilmente anche quella della colonna è riprodotta nell'opera di G. Serreli, Las Plassas - Le origini e la storia, a cura del Comune di Las Plassas, anno 2000, pag. 77, fig. 69.
7) A. Mastino, Rustica plebs id est pagi in provincia Sardinia: il santuario rurale dei Pagani Uneritani della Marmilla, pubblicato in Studi in onore di Michele R. Cataudella, Agorà Edizioni, La Spezia, 2001, pag. 787.
8) Articolo cit., pag. 786.
9) Vedi M. Pittau, Ulisse e Nausica in Sardegna, Nùoro, 1994, ediz. Insula (Libreria Dessì, Sassari), num. 11.
10) Vedi Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) VIII 7845.
11) Vedi P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae (CDS), I-II, Torino, 1861-1868, sec. XI, doc. XXII, 165 s. Cfr. G. Serreli, op. cit., pag. 54.
12) P. Merci, Il più antico documento volgare arborense, in «Medioevo Romanzo», 5, 1978, 371 r. 23.
13) Cfr. M. Pittau, Dizionario della Lingua Sarda cit., sub voce.
14) Vedi M. Pittau, I nomi di paesi cit., sub voce.
15) Vedi G. Serreli, op. cit., pag. 17. La forma registrata in P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae (I 844/1) risulta catalanizzata ed anche errata: Ses Plasses.
16) Ioannis Francisci Farae, in Sardiniae Chorographiam, 1580-1589, edizione critica a cura di E. Cadoni (la quale però purtroppo non è sempre attendibile nella trascrizione dei toponimi), Sassari, 1992, pagg. 134.8; 202.25.


Home Page di Massimo Pittau

Linguistica Sarda
Etruscologia
Italianistica

massimopittau@tiscali.it